I nuovi anni Venti si sono aperti con una promessa grandiosa: entro la fine di questo decennio, torneremo sulla Luna. A più di 50 anni dall’ultima missione che ha portato degli esseri umani a mettere piede sul nostro satellite, è iniziata una nuova corsa allo spazio. Ma questa volta, la Luna sarà solo il punto di partenza.
La stima della NASA è che i primi esseri umani cammineranno sulla superficie di Marte negli anni Trenta di questo secolo. Questo significa che nei prossimi 10-20 anni, dovremo affrontare – e risolvere – i problemi che ci impediscono, ad oggi, di arrivare sul Pianeta Rosso.
Uno studio pubblicato su Nature Communications dai ricercatori della University College London mostra che un viaggio interplanetario della durata di circa 8 mesi (il tempo minimo per raggiungere Marte con la tecnologia attuale) potrebbe causare danni permanenti ai reni degli astronauti.
Marte, ex Pianeta Blu?
Nulla come l’esplorazione spaziale simboleggia il desiderio innato dell’essere umano di scoprire, comprendere e superare i propri limiti. Non importa quali mete saremo in grado di raggiungere, avremo sempre voglia di spingerci un po’ più in là. Cinquanta anni fa abbiamo superato per la prima volta i confini che ci legano a questo pianeta, ma la sfida per il nuovo secolo è di spostare l’orizzonte dell’esplorazione umana ancora più lontano, a più di 200 milioni di chilometri da noi.
Il Pianeta Rosso da sempre ha esercitato il suo fascino sull’umanità: per i Greci e i Romani era il dio della guerra, per gli astronomi dell’Ottocento la culla di vita intelligente, artefice di opere di sofisticata ingegneria idraulica (i famosi “canali” di Schiaparelli, che poi si sarebbe scoperto essere solo una illusione ottica causata dai modesti telescopi dell’epoca).
Gli scienziati ritengono che Marte possa aiutarci a conoscere meglio la Terra e la sua possibile evoluzione, e capire come proteggerla, evitando di accelerare fenomeni naturali con le attività antropiche.
Perché andare nello spazio?
Ma non è solo per questo che andremo su Marte. «Scegliamo di fare queste cose non perché sono facili, ma perché sono difficili», diceva John Kennedy annunciando la volontà degli Stati uniti d’America di far atterrare l’uomo sulla Luna entro la fine degli anni Sessanta del secolo scorso.
L’esplorazione dello spazio è difficile, ma proprio per questo contribuisce a creare innovazione tecnologica e scientifica, con ricadute sulla vita di tutti giorni. Giacche per la montagna, coperte termiche, suole per le scarpe, filtri per l’acqua di rubinetto e occhiali da sole sono solo una minuscola parte delle invenzioni pensate per lo spazio, ma ormai entrate nella nostra quotidianità. La nuova corsa allo spazio potrebbe portare innovazioni che oggi facciamo fatica anche solo a immaginare e nuove soluzioni energetiche per un futuro totalmente libero dai combustibili fossili.
Andare su Marte, però, sarà più difficile di tutto quello che abbiamo fatto finora: uno studio della University College London ci spiega perché (e perché, nonostante tutto, non dovremmo rinunciare).
Le sfide per raggiungere Marte
Le sfide per raggiungere il Pianeta Rosso non sono solo di natura tecnologica. Uno dei problemi più grandi che dovremo affrontare è proteggere la salute degli astronauti che si imbarcheranno in questa missione dalla durata eccezionale. Il viaggio fino a Marte, con le tecnologie attualmente disponibili, non terminerebbe prima di 7-9 mesi, più il ritorno.
La maggior parte dei voli spaziali con equipaggio avviene in orbita terrestre bassa, dove la protezione del campo magnetico terrestre è parziale. Solo i 24 astronauti che hanno viaggiato fino alla luna sono stati esposti alle GCR senza mitigazione, sebbene per un breve periodo (6-12 giorni).
Verso Marte e ritorno: gli effetti sui reni
Finora, però, nessuno aveva studiato in dettaglio i cambiamenti che potrebbero avvenire nei reni e in altri organi durante viaggi spaziali oltre il campo magnetico terrestre per periodi prolungati.
Per questo studio, un team internazionale guidato dall’UCL ha condotto una serie di esperimenti e analisi per capire come i reni rispondano ai voli spaziali. Gli scienziati hanno eseguito valutazioni biomolecolari, fisiologiche e anatomiche su dati e campioni provenienti da 20 coorti di studio. I campioni includevano dati da oltre 40 missioni spaziali in orbita terrestre bassa che coinvolgevano esseri umani e topi, principalmente dirette alla Stazione Spaziale Internazionale, e 11 simulazioni spaziali che coinvolgevano topi e ratti.
Sette di queste simulazioni hanno esposto topi a dosi simulate di GCR equivalenti a missioni marziane di 1,5 e 2,5 anni, riproducendo i voli spaziali oltre il campo magnetico terrestre.
I risultati hanno mostrato che sia i reni umani che quelli animali subiscono un “rimodellamento” nello spazio. I tubuli renali responsabili della regolazione dell’equilibrio di calcio e sale mostrano segni di restringimento dopo meno di un mese. I ricercatori suggeriscono che la microgravità, piuttosto che le GCR, sia la causa principale di questi cambiamenti, ma l’interazione tra microgravità e GCR potrebbe accelerare o peggiorare i danni alla struttura dei reni.
Perché non dobbiamo (ancora) rinunciare a Marte
Secondo gli autori dello studio, nonostante i risultati mettano in luce gravi ostacoli per le missioni su Marte, identificare i problemi è il primo passo per sviluppare soluzioni adeguate.
«Il nostro studio evidenzia che, se si pianifica una missione spaziale, è fondamentale considerare la salute dei reni. Non possiamo proteggerli dalle radiazioni galattiche con schermature, ma man mano che impariamo di più sulla biologia renale, potrebbe essere possibile sviluppare misure tecnologiche o farmaceutiche per facilitare i viaggi spaziali prolungati,» ha affermato il professor Stephen B. Walsh, autore senior dello studio.
«Qualsiasi farmaco sviluppato per gli astronauti potrebbe anche essere utile sulla Terra, per esempio permettendo ai reni dei pazienti oncologici di tollerare dosi più elevate di radioterapia, dato che i reni sono uno dei fattori limitanti in questo contesto,» ha aggiunto Walsh.