Venezia è anche Biennale College Cinema, giunto alla sua dodicesima edizione, un progetto di alta formazione che ogni anno seleziona filmmaker emergenti, alla loro opera prima o seconda, un laboratorio lungo un anno, durante il quale i registi scelti sono seguiti e aiutati a portare a termine il loro lungometraggio con un micro-budget offerto dalla Biennale stessa e con il divieto di accedere ad ulteriori finanziamenti. Insomma, una scommessa.
The Fisherman, della ghanese Zoey Martinson, è uno dei quattro progetti selezionati per il 2024, insieme all’ungherese Jánuar 2 di Zsófia Szilágyi, all’ucraino Honeymoon di Zhanna Ozirna e all’italiano Il mio compleanno di Christian Filippi.
Il film comincia con la narrazione del mito del mare, “madre dell’umanità”, un’umanità che, con il tempo, ha dimenticato le proprie origini e il sacro giuramento dei pescatori di proteggere sempre il mare, che a sua volta li nutre e li protegge, sostituendolo con la madre terra. A parlare è Atta Oko, che spera di diventare finalmente capo barca ma deve fare i conti con una globalizzazione che, pur stonando in quell’ambiente, è ormai irreversibile.
Un villaggio di pescatori dove la maggior parte dei giovani non sa neanche nuotare, dove le donne che lavorano al mercato si autodefiniscono content creator e fanno i TikTok. Tutti parlano di Facebook, Instagram, YouTube, app.
Atta Oko è sopraffatto.
I sogni cambiano, gli dice la moglie. I sogni non vanno in pensione, gli dicono i tre improbabili seguaci che lo coinvolgono in un progetto nuovo.
E, con il tocco fantasy di un pesce parlante ultramoderno, che vuole guardare Netflix, sogna un piercing sulla pinna, un acquario di lusso e un incontro con Beyoncé, e che gli promette un messaggio che non arriverà fino agli ultimi secondi del film, Atta Oko, tra sguardi tristi e attimi di ritrovata speranza diventa l’uomo-simbolo della perenne lotta tra tradizione e progresso. Dà un nome al suo pesce, ne ascolta i consigli, vince al gioco d’azzardo grazie a lui, lo salva da una fine shi-shi, cioè dal diventare un apprezzato sushi durante l’inaugurazione di un ristorante.
E mentre godiamo della commedia, supportata anche da una colonna sonora vibrante e a tratti colorata, come il mondo da cui provengono la regista e il protagonista, colorata come gli abiti che egli indossa, e ci commuoviamo per certe trovate di un Atta allergico ai cambiamenti e dei suoi giovani “amici” in cerca di una guida per i loro sogni, riflettiamo su immagini che ci mostrano un mare che ha perso l’aspetto da cartolina, spiagge non più incantevoli, ma ricettacoli di spazzatura e pneumatici abbandonati, pescherecci commerciali che usano metodi illegali, burocrazie e telefoni cellulari che governano la nostra vita in tutto e per tutto.
C’è persino lo spazio per mostrare i sintomi dell’apparenza a tutti i costi.
Tutto cambia. A volte, abbiamo paura di ciò che non conosciamo – dice Atta, alla fine di quello che diventa a tutti gli effetti un percorso di formazione.
We need change, abbiamo bisogno del cambiamento. E il cambiamento è forte: una donna comanderà la barca, una giovane donna con un diploma nautico, con competenze moderne e con idee che sposano il progresso con il rispetto della tradizione.