Alle persone che soffrono di dolore senza che ci sia una particolare patologia o danno meccanico viene spesso detto: “è solo nella tua testa”. In un certo senso è vero: il dolore non è fisicamente localizzato nel corpo, ma è prodotto dal cervello (anche se questo non significa che non sia reale). Perché, allora, continuiamo a curarlo come fosse un fenomeno puramente meccanico?
Un nuovo studio pubblicato dalle ricercatrici e dai ricercatori dell’Università della California a San Diego (UCSD) sfida questo pregiudizio, dimostrando che la meditazione “mindfulness” – derivata dalle tradizioni buddista e indù – può ridurre la percezione del dolore, con un impatto tangibile e misurabile sul cervello.
Cos’è la Mindfulness?
“Qui e ora”: questo è l’approccio della meditazione “mindfulness”, che tradotto letteralmente dall’inglese significa “consapevolezza”. Questa pratica, presente nei testi sacri del buddismo di 2000 anni fa, descrive uno stato di attenzione consapevole e non giudicante al momento presente, senza reagire o cercare di modificare pensieri, emozioni o sensazioni, ma lasciandoli scorrere.
Nella frenesia della vita quotidiana capita spesso di dimenticare il “qui e ora”, vivendo in funzione del “dopo” e concentrati sugli impegni da portare a termine, in un perenne stato di ansia e di apprensione per il futuro. Il risultato è che ci muoviamo con il “pilota automatico”, senza mai essere davvero in relazione con noi stessi e con quello che stiamo facendo in quel momento.
Il dolore: non solo fisico
Oggi sappiamo che il dolore non è un’esperienza puramente fisica, ma il risultato di fattori ambientali, sociali e psicologici. Gli input provenienti dai recettori del dolore presenti in tutto il corpo rappresentano solo una delle informazioni che il cervello elabora per generare la sensazione dolorosa: anche il ricordo di esperienze passate, la percezione del pericolo e le emozioni delle persone intorno a noi possono influenzare l’esperienza del dolore.
Gli studi dimostrano che lo stress o l’ansia possono peggiorare il dolore. Sempre più professionisti, infatti, propongono percorsi integrati che non si basano solo sui farmaci.
I benefici sono stati riscontrati in pazienti oncologici o con dolori cronici, come cefalee o lombalgie.
Effetto placebo o risposta reale?
Ma perché la meditazione funziona? La prima ipotesi è che si tratti solo di un effetto placebo: la meditazione non avrebbe un potere diretto nel ridurre il dolore, ma sarebbero i fattori psicosociali, in particolare l’atteggiamento positivo del paziente verso la cura, a generare benefici reali.
Uno studio pubblicato su Biological Psychiatry smentisce però questa ipotesi: la meditazione non è un effetto placebo mascherato, ma una risposta cerebrale autonoma. Le ricercatrici e i ricercatori hanno sottoposto 115 partecipanti sani a due studi clinici, esponendoli a una fonte di calore controllata sul polpaccio per generare una sensazione di dolore intenso ma non pericoloso. Tramite risonanza magnetica funzionale, hanno analizzato le firme cerebrali del dolore prima e dopo l’esperimento, mentre i partecipanti valutavano l’intensità e la sgradevolezza del dolore su una scala da 0 a 10.
La “firma” del placebo
Prima dell’esperimento, alcuni partecipanti erano stati addestrati alla meditazione mindfulness, altri avevano praticato una meditazione “simulata” incentrata solo sulla respirazione, e un terzo gruppo aveva ricevuto una crema placebo (in realtà semplice vaselina, presentata come un potente analgesico). Il gruppo di controllo ha ascoltato un audiolibro, senza praticare meditazione.
Attraverso la risonanza magnetica (RM), i ricercatori hanno visualizzato quali aree del cervello hanno reagito ai trattamenti o al placebo. Quando assumiamo un placebo e il dolore diminuisce, ad esempio, nel cervello si attiva un’area legata all’aspettativa e ai fattori psicosociali, che in una scansione RM è ben visibile e corrisponde a una “firma cerebrale” specifica.
La Mindfulness riduce il dolore
Le immagini hanno mostrato che la meditazione mindfulness riduce significativamente il dolore nelle aree cerebrali associate alla percezione dell’intensità (NPS) e all’esperienza emotiva del dolore (NAPS), ma non ha inciso sulla “firma cerebrale” del placebo (SIIPS-1).
Le ricercatrici e i ricercatori concludono: «Per anni si è pensato che il placebo attivasse gli stessi meccanismi dei trattamenti attivi, ma questi risultati dimostrano che nel caso del dolore non è così.»