«Leona, ma non è sproporzionato lavorare in un gruppo con una sola donna e quindici fisici?»
«Intanto è una fisica con quindici fisici… E poi, sono soltanto quindici ma sono bravi!»
Leona Harriet Woods era un prodigio: laureata a 18 anni, a 23 prese il dottorato in fisica, a 25 anni entrò a far parte del team del Progetto Manhattan, che portò alla costruzione della bomba atomica, e di cui facevano parte anche Oppenheimer, Fermi e Compton. Esperta nella rilevazione delle particelle con il trifluoruro di boro, addetta al calutrone e abile nel misurare il flusso di neutroni del reattore nucleare.
Mentre lavoravano al Progetto Manhattan, e lei era incinta, Enrico Fermi si era letto un manuale medico nel caso avesse dovuto farla partorire lui (perché Leona è rimasta operativa a Los Alamos fino all’ultimo giorno). E quando è tornata, appena tre giorni dopo il parto, l’autista di Fermi, Baudino, le ha detto che aveva superato il record delle contadine italiane, per la velocità con cui era tornata al lavoro.
Hanno tentato di ostacolarla in tutte le maniere, lei semplicemente li ha superati, diventando più brava di loro. Ma chi era Leona Woods?
Gabriella Greison, fisica, scrittrice, attrice e divulgatrice scientifica, ha dedicato il suo nuovo romanzo, “La donna della bomba atomica” (Mondadori) a Leona Woods e sta raccontando la sua storia nell’omonimo spettacolo teatrale portato in scena con la regia di Alessio Tagliento.
Gabriella, come ti sei imbattuta nella storia di Leona Woods? Ci racconti il lungo lavoro di ricerca dietro al tuo libro “La donna della bomba atomica”?
«Ho iniziato a pensare a Leona nel 2019, poco prima della pandemia. Leggendo tra le righe di un libro, in cui si parlava di Arthur Compton, uno dei fisici creatori della fisica quantistica, che sta in posa nella fotografia del 1927 che è la mia ossessione, quella a margine del V Congresso Solvay e che è diventata poi il mio cavallo di battaglia nel primo libro “L’incredibile cena dei fisici quantistici” (2015, Salani).
Siccome volevo occuparmi di lui, perché lo sto facendo per ogni personaggio in posa in quella foto, mi sono imbattuta in Leona Woods. In pratica, il nesso è stato che Arthur Compton, ogni sera, leggeva la Bibbia ad un gruppo di persone del Progetto Manhattan e, tra loro, non mancava mai proprio Leona.
Quindi mi sono detta: perfetto, è lei il mio nuovo obiettivo. Poi è scoppiata la pandemia e non ho potuto viaggiare, perché per scrivere di lei e raccogliere informazioni avrei dovuto fare un viaggione nell’America più dura, quella del New Mexico, e allora ho rimandato fino all’estate scorsa quando sono partita per l’America.»
Perché, quando hai scoperto la storia inedita di Leona Woods, hai deciso di raccontarla in un romanzo e in uno spettacolo teatrale?
«Perché era una scienziata in un luogo totalmente maschile.
La fisica, in particolare la fisica quantistica e nucleare, è sempre stata lo svago degli uomini, per le donne c’erano altri svaghi, come curare i malati, fare figli, stare con la famiglia.
In America, figuriamoci in Europa! Parlare di Seconda Guerra mondiale è macho, parlare di bomba atomica è macho, per questo sono sempre stati gli uomini a farlo. A farlo, a parlarne, a commentarla.
Avete mai sentito una storica donna che parla di Seconda Guerra Mondiale? Figuriamoci la costruzione della bomba.
Per questo io mi sono immersa totalmente in questo lavoro. Lo faccio io. Come esempio per tutti.»
Gabriella, questa è una frase tratta dal tuo romanzo su Leona Woods: «C’erano scienziati che hanno cercato di scoraggiarla in tutte le maniere. Lei li ha superati, diventando più brava di loro.»
Credi che nel dibattito femminista sia necessario, oggi, proporre delle figure femminili ma di successo?
«È necessario, essenziale, fondamentale! Anche perché avere dei role model diventa fondamentale per noi, oggi, e per le nuove generazioni.
Noi siamo cresciute non vedendole, non avendo un riferimento (men che meno in televisione) di donne che si sono realizzate nel proprio ambito e nella scienza, in particolare nella fisica che è considerata la scienza più dura, è ancora più difficile vedere queste rappresentanze… Queste figure maestose che devono esserci, è fondamentale!»
Il destino ce lo creiamo noi, maledizione, a volte ne siamo artefici, a volte ne siamo colpevoli.
Questa frase che tu attribuisci a Leona è una frase che senti anche tua?
«Sì, il destino ce lo costruiamo noi! Io mi sono costruita, passo per passo, ogni cosa che ho fatto.
Ho creato un mio mondo dove vivere e dove realizzarmi.
A teatro io guardavo quelli più bravi di me e li ho studiati per dieci anni. Andavo a teatro a vedere Laura Curino, Lucilla Giagnoni, Massimo Popolizio, Marco Paolini, li guardavo e li emulavo. Tornavo a casa e ripetevo a memoria, davanti allo specchio, i loro monologhi. E così per dieci anni dunque non è che sono nata nel web, io sono nata con una preparazione ben precisa.
E la stessa cosa ho fatto per la scrittura, prima sono passata dal giornalismo, ho iniziato a scrivere ovunque e di qualsiasi cosa. Non importa quello che scrivi, ma l’importante è come lo scrivi! Io volevo dimostrare di saper scrivere e questo mi ha portato a scrivere il primo libro di successo: “L’incredibile cena dei fisici quantistici” (Salani) è stato un caso editoriale che ancora oggi, a distanza di dieci anni, continua a essere in ristampa. E dopo di lui ne sono nati altri undici, dodici libri in totale che continuano a essere ristampati e che porto in giro.»
…E, a proposito della storia di Leona che tu racconti, nel tuo romanzo ci sono dei dettagli molto specifici, i suoi pensieri oppure il fatto che Enrico Fermi e lei facessero il bagno insieme nel lago…
Sono tutti dettagli autentici o c’è qualcosa di romanzato?
«È tutto autentico: le mie ricostruzioni storiche sono ricostruzioni storiche accuratissime.
Ma soltanto sul posto le trovo e quindi andando in America, in quella più dura: per Leona sono andata a Hanford, sono andata a Los Alamos, al centro del New Mexico, un posto irraggiungibile. Sono andata nei posti dove è possibile vedere come nascono quelle vicende che avevo l’esigenza di raccontare.
E dunque le nuotate con Fermi sono vere, così come sono veri i giochi che faceva con Enrico Fermi. Ad esempio una sera a Los Alamos hanno fatto un gioco: “chi vuoi essere nel tuo giorno libero?”, per svagarsi un po’ dopo una lunga giornata al Progetto Manhattan. Leona Woods ha risposto Greta Garbo, dopo di lei era il turno di Oppenheimer, che ha risposto Enrico Fermi.
E poi, certo, c’è uno spirito di romanzo all’interno dei miei racconti che mi permette di essere me stessa e quindi di tirare fuori il lato un po’ più forte di quella persona e di estremizzarlo.»
Nel libro parli anche di Albert Einstein e lui pronuncia questa frase: «Chiunque faccia scienza si convince che le leggi della natura manifestano l’esistenza di un essere totalmente superiore ad ogni umano, davanti a cui noi, con le nostre modeste facoltà, non possiamo che essere umili.»
E aggiungi, facendo parlare Leona, che Einstein si mise a fare anima.
Noi siamo abituate e abituati a pensare scienza e spiritualità e come due cose opposte, tu cosa ne pensi?
«Einstein si è messo a fare anima, si è messo lì e ha cercato di capire come tirare fuori se stesso all’interno di quello che scriveva e dei suoi studi. E non è da tutti! C’è chi è scienziato e rimane scienziato, puro, duro, e invece c’è chi cerca qualcosa in più.
Per esempio uno dei miei fisici di riferimento del ventesimo secolo è Wolfgang Ernst Pauli, lui andava addirittura in analisi da Jung per capire qualcosa di più della sua anima. Oppure mi piace tantissimo Erwin Schrödinger che cercava, in tutte le maniere, di trovare se stesso isolandosi, stando da solo. Einstein alla stessa maniera.
Dunque bisogna andarli a cercare questi fisici qua, sono pochi nel ventesimo secolo, ci hanno aperto la strada e li sto raccontando tutti, uno ad uno, nei miei romanzi e nei miei spettacoli teatrali.»
Quindi è possibile far coesistere fisica e un aspetto più spirituale?
«Bisogna essere portati per un certo tipo di ricerca: io non uso solo la scienza, uso la letteratura, uso la musica, uso qualsiasi cosa mi venga a supporto. Il teatro è il punto ultimo di realizzazione, riesco ad arrivare a tutti con il teatro!»
Hanno provato a sotterrarmi tante volte ma non sapevano fossi un seme.
Quanto è importante per te avere un progetto di vita per sconfiggere le oppressioni o comunque chi ci ostacola?
«Io l’ho fatto con la consapevolezza ma la consapevolezza non arriva subito, la consapevolezza arriva dopo tanto tempo. Io dico sempre che arriva dopo i quarant’anni, a me è arrivata con i quarant’anni. A quell’età cominci a capire quello che hai fatto e a dargli un senso, dargli un valore.
Ecco, non sapevano fossi un seme, è una cosa che mi ha ispirato tantissimo, l’ho sentita molto e mi sono identificata in Leona. In Leona ho rivissuto quello che ho vissuto io! Io sono fisica nucleare, del mondo dell’infinitamente piccolo, quantistico, e Leona si è realizzata nell’ambiente più tossico di quel periodo. Io l’ho fatto all’École Polytechnique di Parigi, lavorando con François Amiranoff che era un riferimento eccezionale a quei tempi.
Poi sono tornata in Italia con l’esigenza di raccontarla la fisica e quindi mi sono creata il mio mondo ma ci ho messo dieci anni per crearlo questo mondo. E, come ho detto all’inizio, non mi sono improvvisata in niente.»
Sapere poco è pericoloso, sapere molto non lo è mai.
Con la storia di Leona Woods viaggerete a Los Alamos, a Chicago, a Princeton, ad Hanford e vivrete gli anni del Progetto Manhattan…
E, ovviamente, leggetevi il libro di Gabriella Greison: “La donna della bomba atomica” (Mondadori).
È la fisica, baby! 🤟