La missione partita per la Groenlandia è stata guidata da Alberto Vitale Brovarone, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Alma Mater di Bologna.
Tutte le attività di ricerca si svolgono nell’ambito del progetto DeepSeep, finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC).
Professor Vitale, come è nata la sua passione per la scienza e la geologia?
«Per caso, e un passo alla volta. Il mio Professore di scienze del liceo, un giorno ci parlò dei minerali. Era un geologo, e quello fu più un racconto che una parte del programma. Ci spiegò che non si formano a caso, ma seguono dei meccanismi prevedibili. Mi diede una gran voglia di scoprirne di più. Poi, all’Università, trovai un altro Professore che, con grande naturalezza, raccontava storie incredibili su qualunque tipo di roccia. Da lì non ho più smesso di appassionarmi.»
Che cos’è l’idrogeno naturale? Come si forma? Perché si forma solo in profondità?
«Innanzitutto si parla di idrogeno molecolare (H2) naturale, e non genericamente di idrogeno. È una molecola che, bruciando, produce energia. È stata fondamentale nell’evoluzione dell’universo e dei pianeti. La si conosce da tantissimo tempo, ma nella crosta terrestre moderna (quella che vediamo noi oggi), si è sempre ritenuto non fosse presente in quantità rilevanti. Nella realtà dei fatti, per molto tempo i nostri strumenti non erano nemmeno in grado di rilevarlo, e da lì è nato il preconcetto che l’idrogeno molecolare geologico non fosse presente, ovvero, non fosse stato misurato. Poi è iniziato a “comparire” nelle misure fatte da geologi in alcuni contesti particolari, come in sistemi idrotermali sottomarini, e in maniera sistematica. Nel corso degli ultimi 20 anni, l’idrogeno molecolare è passato da una bizzarria poco interessante, al centro di un nuovo grande capitolo delle scienze geologiche, che per molto tempo non lo aveva tenuto in conto.
Si può formare in diversi modi: attraverso reazioni tra acqua e minerali contenenti elementi che si possono ossidare, come il ferro; attraverso processi di trasformazione naturale di materiale organico o da organismi viventi (quest’ultimo è naturale, ma non geologico); attraverso processi di scissione di molecole d’acqua causate da particelle rilasciate durante il decadimento radioattivo di minerali connettenti elementi (come l’uranio o il torio, la cosiddetta radiolisi dell’acqua) o durante processi di frizione tra corpi duri.
Si può formare dalla superficie della Terra, fino a grandissime profondità (centinaia di chilometri). Io studio quello profondo, semplicemente perché cerco di evitare le contaminazione superficiali dovute alla presenza di vita all’interno della biosfera, che complicano la comprensione dei processi puramente geologici.»
Come è nata l’idea della spedizione in Groenlandia?
«È stato un caso fortunato, ma che con un po’ di ragionamenti aveva perfettamente senso.
Il tutto è nato grazie a uno studente che, rientrando da un tirocinio all’estero, mi ha portato alcuni dei campioni che aveva studiato. Non ero particolarmente interessato a quelle rocce, ma curioso di guardarle. Dalle prime osservazioni al microscopio abbiamo capito che c’era qualcosa di importante, e quasi certamente legato a grandi quantità di idrogeno.»
Quale è il suo obiettivo principale?
«Capire l’idrogeno geologico. Ne sappiamo ancora pochissimo. Sappiamo che c’è, e ne viene trovato sempre di più. Ormai viene trovato anche dove non dovrebbe esserci.
Sono informazioni fondamentali per poterne valutare il ruolo nella storia della Terra, e l’impatto che ha avuto sulla vita e potenzialmente sulla società del futuro.»
Può dire di averlo raggiunto?
«È ancora presto. Anche perché la nostra spedizione ha avuto molti imprevisti. L’area scelta per lo studio era bloccata dai ghiacci e non abbiamo potuto raggiungerla, e abbiamo dovuto studiare un’altra area all’ultimo minuto. Ma i dati preliminari ci hanno già confermato che l’idrogeno c’è anche lì.
Ora serviranno mesi di lavoro in laboratorio.»
Perché è stata scelta proprio la Groenlandia?
«Per tanti motivi. Sapevamo che c’era, grazie ad alcuni campioni che già ci erano arrivati quasi per caso. Poi, la Groenlandia è uno di quei terreni ideali per la formazione di idrogeno molecolare attraverso i processi di radiolisi dell’acqua. Sono processi che, per produrre idrogeno in quantità significativa, hanno bisogno di molto, molto tempo. E ne troviamo infatti traccia solo in quelle zone della Terra dove la crosta è fatta da rocce più vecchie di 540 milioni di anni, detti anche terreni precambriani. La Groenlandia è per gran parte fatta di rocce ancora più vecchie, fino a oltre 3 miliardi di anni. Contesti ideali per cercare tracce di idrogeno molecolare.
Inoltre, la nostra ricerca punta a comprendere l’idrogeno, e non a estrarlo. Per questo secondo passo serve più tempo, credo. La Groenlandia, per tanti motivi, non è il contesto giusto per estrarlo, almeno in questo momento storico. Questo ci permette di fare la nostra ricerca svincolati da interessi economici locali.»
In quali altre zone si prevede che si possa trovare l’idrogeno naturale?
«In moltissime. I terreni precambiani sono molto comuni nel Nordamerica, in Australia, in Africa, in Sudamerica, in Asia. E non a caso i più grandi progetti di esplorazione a fini energetici stanno nascendo lì. Ma a scale più piccole, gli altri processi che formano idrogeno molecolare geologico si possono trovare un po’ ovunque nel mondo. Dalle Alpi italiane o francesi, nei Pirenei, nei Carpazi e così via. In alcuni casi, anche contesti apparentemente piccoli hanno mostrato fuoriuscite di idrogeno molecolare di interesse economico. Ma è presto per fare valutazioni. È un mondo che sta nascendo, ma molto velocemente.»
Come si organizza e ci si prepara ad una spedizione? C’è una preparazione a più livelli immagino: teorica, fisica, anche psicologica? Avevate un piano d’azione giornaliero? Siete riusciti a rispettarlo?
«Dipende da dove si va e cosa si vuole fare.
Nulla può essere lasciato al caso. Vanno studiate le carte geologiche, le morfologie e i possibili percorsi giornalieri. Una piccola scarpata inattesa può rovinare il piano di un giorno intero. Dovendo raccogliere rocce, bisogna anche ragionare per tempo a quanti campioni ognuno dovrà e potrà raccogliere e caricarsi nello zaino, che quasi sempre si svuota la sera.
Poi ci sono gli imprevisti: il maltempo, gli iceberg, un orso avvistato nella zona, un mal di pancia, uno strumento da campo guasto o perso. Tutto questo richiede preparazione. Un po’ di preparazione o predisposizione fisica serve sempre, anche se le nostre attività non sono particolarmente spericolate: non sono comunque posti in cui correre rischi. E serve predisposizione alla vita da campo: se ci serve ancora un campione, si rientrerà più tardi. E così si finisce a lavorare anche con la luce nordica di mezzanotte.
In questa spedizione, l’imprevisto è stato il non poter accedere alla zona inizialmente scelta. E lo abbiamo saputo a un giorno dalla partenza. Abbiamo usato ogni minuto all’aeroporto e in aereo per studiare nuove carte geologiche e fare nuove strategie. Imprevisti di ogni mestiere.»
Avete tenuto un diario di bordo?
«I geologi hanno sempre con loro il quaderno di terreno, sul quale annotare tutto, giorno per giorno: condizioni atmosferiche, nomi dei campioni, luoghi, disegni…
Ho avuto il piacere di pubblicare un diario della spedizione su Ansa.»
Vi è stato utile?
«Il quaderno è fondamentale. È ciò che, a distanza di decenni, permette di ricollocare un’informazione in un punto su una mappa. Il blog su Ansa è stato utilissimo per stabilire un contatto con chi da casa era interessato alla nostra spedizione.»
In base a quali caratteristiche vengono scelte le rocce da esaminare? Come si esamina una roccia? In che modo si prelevano i campioni?
«Dipende da cosa si vuole fare. A noi servivano campioni rappresentativi di tutte le rocce della zona, oltre a qualunque roccia in attesa che potesse suggerire presenza di idrogeno. Guardiamo le strutture, i minerali e le loro abbondanze. In base a quello che dovremo fare dopo (analisi di vario tipo), scegliamo i campioni che ci sembrano i migliori e la quantità sufficiente per fare tutto. È un passo fondamentale, che richiede grande esperienza.
Sul terreno con occhi, lente di ingrandimento da geologo e a volte altri strumenti più specifici. I geologi hanno una formazione sorprendentemente sviluppata per identificare rocce e minerali solo con un rapido sguardo. Questo perché le cose non avvengono a caso. Poi esistono tantissime analisi di laboratorio per studiare la chimica dei minerali, le condizioni di formazione di una roccia (a quale profondità e temperatura si sono formate prima di risalire in superficie), e addirittura datarle. E noi studiamo come fluidi di miliardi di anni fa, come il nostro idrogeno molecolare, hanno interagito con queste rocce, cercando tracce nascostissime del loro passaggio.»
Qual è stato il momento più difficile di queste due settimane?
«La frustrazione di non poter raggiungere la zona inizialmente pianificata e il non sapere se, in quella nuova, ci fosse idrogeno. Cambia tutto sull’approccio quotidiano.»
Qual è stato il momento più emozionante?
«Tantissimi in realtà. Se chiudo gli occhi mi compaiono immagini di paesaggi, di fatiche, rocce appena aperte con caratteristiche inattese. Ma anche tanti momenti di scambio con le persone del luogo.»
Potete dire di aver scoperto qualche informazione in più rispetto al pre-partenza?
«Sicuramente, molte. Ma anche molto complicate da ricostruire e spiegare. Ci servirà tempo!»
Come si può sfruttare l’idrogeno naturale? Cosa significa “possibile uso come fonte di energia pulita?
«Bruciando. L‘idrogeno molecolare produce solo acqua (potabile), e nessun composto di carbonio. Per questo, quello naturale è la risorsa energetica ideale: è già pronto, non servono energia e inquinanti per produrlo. Ma lo abbiamo appena scoperto, ci servirà tempo per capire come cercarlo e sfruttarlo in maniera sostenibile.»
È davvero plausibile che la vita si sia sviluppata prima all’interno della crosta terrestre e solo in seguito in superficie?
«Lei cosa preferirebbe: nascere in superficie, in balia di correnti fredde, agenti atmosferici e tanto altro, o in un caldo incubatore con cibo e energia garantiti da un intero pianeta? Detta così sembra più che plausibile. Le condizioni lo permettono, e la vita di sub-superficie è ampiamente dimostrata. E più ci penso, e moltissimi con me, più mi sembra davvero poco plausibile che al contrario la vita abbia scelto di nascere in superficie per poi spostarsi in profondità. Ma non credo ci toglieremo il dubbio a breve. Anzi, probabilmente nel frattempo arriveranno altre teorie!»
Quali sono i limiti nell’utilizzo dell’idrogeno naturale e quali i plus che lo rendono una fonte energetica unica che si differenzia dalle altre fonti?
«Utilizzo (post-produzione): serve usarlo alla svelta e in prossimità. Altrimenti si rientra in grandi problematiche tecnologiche sul suo stoccaggio e trasporto. È una molecola che non ama essere chiusa da qualche parte. Solo la natura ha imparato a farlo, e ancora non capiamo bene come.»
Perché gli ingegneri non vedono l’idrogeno naturale come possibile fonte energetica del futuro?
«Credo che molto sia legato al fatto che per lungo tempo i geologi “non l’hanno misurato”, ma per carenza degli strumenti. Lo si da per scontato, non c’è. Ora ci troviamo in un momento di grande sviluppo tecnologico per l’idrogeno molecolare industriale. E allo stesso tempo emerge quello naturale. Credo che le due soluzioni saranno fondamentali nel futuro. Idrogeno naturale e industriale prodotto da fonti rinnovabili (il cosiddetto “green hydrogen”) saranno fondamentali. E i geologi avranno un gran bisogno di ingegneri e biologi per fare in modo che quello naturale faccia la propria parte. In nessun modo i settori devono percorrere strade isolate.»
In futuro avremo la possibilità di avere macchine a idrogeno?
«Già esistono. In futuro, mi auguro sempre di più. Ma non saranno auto di piccola taglia, l’idrogeno ha senso su mezzi di grandi dimensioni. Ma dallo stesso idrogeno potrebbe essere generata energia elettrica per alimentare auto a batteria. Ma mi fermo qui, è meglio lasciare la parola a chi studia questa parte della faccenda.»
Come immagina il futuro dell’energia?
«Problematico. Sempre più richiesta, molta della quale non necessaria. Serve un grande sforzo culturale. Mio figlio ha 4 anni. Spero che durante le sue elementari venga istituita l’ora settimanale di educazione energetica e ambientale. Altrimenti faremo molta fatica!»