Sabato 19 Ottobre, nella sezione Grand Public della Festa del Cinema di Roma, è stato presentato il film Eterno visionario di Michele Placido.
Il regista, ispirandosi alla biografia di Matteo Collura, “Il gioco delle parti”, porta sul grande schermo la vita intima e personale di Luigi Pirandello, dalle solfatare della Sicilia più arretrata a Stoccolma, dove vince il Nobel per la letteratura nel 1934.
Fabrizio Bentivoglio è l’interprete di un artista che seppe capire la dissoluzione dell’identità dell’uomo novecentesco e descrivere quella gabbia di simulazioni che è la società.
La pellicola si apre con una scena in cui Pirandello viaggia in treno verso Stoccolma, nel 1934, per andare a ritirare il premio Nobel: è da questo epilogo felice ma anche malinconico, per l’assenza della sua amata Marta Abba, che lo scrittore è suggestionato dal suo umore nell’evocare tutti i ricordi più significativi di un’esistenza complessa e difficile.
Nella mente del protagonista riemergono i sogni e le ossessioni, che affondano le radici soprattutto nella sua famiglia, nel suo rapporto con il teatro e in un amore irrequieto.
Particolarmente interessanti le due figure femminili: la moglie di Pirandello, sapientemente interpretata da Valeria Bruni Tedeschi, e Marta Abba, la musa ispiratrice dello scrittore.
Federica Luna Vincenti è la magnetica Marta Abba: una donna forte, consapevole e piena di talento.
Oltre a ricoprire la veste di produttrice della pellicola, con la Goldenart Production (che ha prodotto il film con Rai Cinema, il coproduttore belga GapBuster, il sostegno del Ministero della Cultura, della Sicilia Film Commission e della Regione Lazio), e quella di autrice delle musiche.
L’attrice divenne l’interprete perfetta del suo teatro considerato, all’epoca, scandaloso, troppo moderno, in drammi come Diana e la Tuda, Come tu mi vuoi, L’amica delle mogli.
Luigi Pirandello la dipingeva così: «È giovanissima e di meravigliosa bellezza. Capelli fulvi, ricciuti, pettinati alla greca. Occhi verdi, lunghi, grandi e lucenti, che ora, nella passione, s’intorbidano come acqua di lago; ora, nella serenità, si fermano a guardare limpidi e dolci come un’alba lunare; ora, nella tristezza, hanno l’opacità dolente della turchese».
Federica Luna Vincenti: «Questo personaggio meraviglioso che ho avuto la fortuna di interpretare mi ha anche un po’ ricordato come è nata la mia storia d’amore con Michele Placido, inizialmente…
Pirandello incontra Marta quando lei aveva 25 anni e lui 58, rimane folgorato da questa donna e da lì inizia la loro storia professionale. L’uno attinge dall’altra le energie vitali e, grazie a Marta Abba, Pirandello scriverà delle bellissime opere! Vivranno dieci anni splendidi, insieme, e poi la loro storia (non voglio svelare troppo per chi ancora non ha visto il film) avrà un epilogo molto particolare con la famosa notte sul lago di Como.
Forse non tutti sanno che in realtà il mio personaggio doveva essere interpretato da Miriam Leone. Due settimane prima dall’inizio delle riprese l’attrice è rimasta incinta e quindi sono entrata io nel cast a sostituirla. Come spesso mi è accaduto nella vita! Durante la pandemia da Covid-19 mi era già capitato di sostituire tre attrici malate, all’ultimo momento.
Miriam Leone sarebbe stata perfetta. Abbiamo fatto dei provini, ho voluto farne anche io uno. Da produttrice cercavo di togliermi dalla testa il mio passato in teatro, ma la figura di Marta mi ha sempre incuriosita. Mi sono detta: è il ruolo della mia vita e mi sono buttata!»
Secondo Federico Vittore Nardelli, autore dell’unica biografia pirandelliana (“L’Uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello”) scritta quando lo scrittore era ancora in vita: «Ecco, per Pirandello, è la vita. Se la statua si muove, e si muove con un corpo di donna, come vuoi tu che la tenerezza non vinca l’artista, che non lo prenda alla gola, che non lo commuova fino al delirio?»
Marta Abba dovette attendere il 18 Maggio 1925, data della prima dei Sei personaggi in cerca d’autore, affinché si compisse quell’incontro con la drammaturgia pirandelliana che ne avrebbe condizionato la carriera artistica e l’intera esistenza.
Nei panni della Figliastra l’attrice venne elogiata dalla critica per la sua maturazione artistica, caratterizzata da un’appassionata adesione al personaggio. Si annunciava così la sua trasformazione in interprete pirandelliana, seguace convinta degli insegnamenti del Maestro, zelante al punto di affiggere sulla porta del camerino, anziché il suo nome di attrice, il nome del personaggio di turno, al fine di sottolineare il suo totale annullamento nella parte.
…Ma chi era Marta Abba come artista e chi è per te?
«Marta era una donna determinata, vibrante, multiforme, teatrale in scena e fragile nella vita: mi ricorda le grandi attrici del Novecento, come Mariangela Melato, che in scena viveva la vita. A meno di trent’anni era già consapevole nel talento.
Marta cercava un rapporto di testa, non carnale. Quando si vive di arte, l’età e la carne non contano. Il loro epistolario tira fuori un amore immenso per il proprio lavoro che si trasforma in passione eterna. Quasi come se il rapporto fisico fosse vissuto pienamente anche se non è avvenuto.»
Chi è stata la donna che ti ha maggiormente ispirata, nella tua vita?
«Mia madre.
Quando mia madre si ammalò di tumore, non ressi lo stress e il dolore. Smisi di recitare perché sviluppai una rara malattia neurologica, ebbi una crisi su quello che volevo fare. Poi mi sono ricordata di un insegnamento di mamma: brucia i soldi che non contano niente, gettati nei progetti più grandi e irrealizzabili. E così ho fatto e continuo a fare!»
Dove e quando comincia la tua carriera artistica?
«Dall’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico di Roma: il mio démone è il teatro, la recitazione e il canto, sono legata a Brecht e nel nostro film c’è un cameo con la voce di Ute Lemper.
Ho recitato con la Melato e Albertazzi, poi è accaduto qualcosa di magico. Ero a teatro a Parigi, per Il visitatore di Schmitt, e guardai lo spettacolo con gli occhi di chi vuole seguire il percorso creativo dall’inizio. Diventai produttrice per piccole serate.
Quest’anno per esempio facciamo Orwell, 1984. A teatro ho prodotto Ambra Angiolini sul bullismo e su Franca Viola, prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore, e Marco Bellocchio per Zio Vanja.».
Sei cresciuta in una famiglia bella e con i piedi ben piantati per terra: mamma casalinga, papà impiegato in Telecom, tuo fratello infermiere: ora hai messo in piedi un film da 13 milioni, venduto in 50 paesi.
Ci racconti le difficoltà dell’essere una produttrice cinematografica oggi, sul mercato italiano?
«Sono una donna autonoma, trovo da sola dal primo all’ultimo euro per realizzare i film, ho costruito la mia strada lavorando in modo sano: sarebbe stato facile andare nei salotti televisivi quando venivo chiamata per parlare della mia storia con Michele Placido, ma non mi è mai interessato.
Lavoro con 12 donne e vado avanti su un percorso non stereotipato; sono concreta, granitica, rigida perché la notte i problemi di budget non ti fanno dormire.
È un momento molto complesso per il cinema italiano: immaginare storie e metterle in scena è davvero complicatissimo. Ma io non mi arrendo e continuerò a investire nelle storie in cui credo, le storie che meritano di essere raccontate!
Sulla mia pelle porto una profonda cicatrice, il dolore per la perdita, al settimo mese, della figlia mia e di Michele Placido. E ho partorito. Sono cose che non si possono raccontare.»