Chi è il mostro?
Ecco la domanda che lo spettatore ascolta e si ripete più volte, dall’inizio alla fine del nuovo film di Kore’eda Hirokazu, L’innocenza, in sala da pochissimi giorni.
Il titolo originale, 怪物, Kaibutsu e quello internazionale scelto dal regista, Monster, in effetti, rendono meglio della traduzione italiana il senso di un film che assume la forma dei punti di vista, delle prospettive, delle soggettive, in un continuo dialogo tra diegesi interna ed esterna, quella dello spettatore chiamato continuamente a cambiare idea su responsabilità e colpe.
Un film che, già da Cannes, dove ha vinto il Prix du Scenario, il Premio per la Migliore Sceneggiatura, assegnato a Yuji Sakamoto, è stato definito “un capolavoro per l’anima”, chiamando in causa persino Miyazaki e i suoi mondi poetici. Eppure, Kore’eda – il regista di Father and Son, Un affare di famiglia e Nessuno lo sa – non ha bisogno di padri putativi, avvezzo com’è a scandagliare le relazioni familiari e l’animo di bambini, adolescenti e persone sole. Sa come accompagnare lo spettatore all’interno delle sue storie, ordinarie e straordinarie allo stesso tempo.
Qui c’è il dramma, il sospetto, il dolore di una madre che cerca di reagire, e non si arrende nonostante la freddezza apatica di un sistema scolastico votato a proteggere se stesso prima che i bambini, un sistema che, pur di calmare le acque, si inchina e chiede scusa, recitando (male) un copione di cui fa parte persino l’angolazione di una foto in cornice.
Il film inizia con un’inquadratura dal basso che, subito, dichiara il progetto del regista, e prosegue con sfocature, dettagli e punti di vista che possono apparire, talvolta, azzardati e contraddittori. Punti di vista che si moltiplicano e che lasciano in sospeso una versione per mostrare uno sguardo diverso: quello della madre di Minato, Saori, interpretata dalla bravissima Sakura Andō, che crede che il figlio sia bullizzato dal maestro Hori; quello della preside della scuola, responsabile di chissà quali colpe indicibili, di bugie, di pregiudizi; quello del maestro Hori che più grida la propria innocenza, più si intrappola in un mosaico di fobie e paranoie. Né lui, né la preside riescono a conquistare l’empatia del pubblico in sala, nemmeno per un istante. Come non la conquista il padre di Eri.
In fondo, come dice a un certo punto la preside, “ciò che è realmente successo non ha importanza”… E come, sempre lei, suggerisce a Minato, basta soffiare forte dentro a uno strumento a fiato per far svanire ciò che non può essere detto.
Lo schema narrativo di Kore’eda viaggia su stilemi che ricordano il maestro Akira Kurosawa, con le versioni alla Rashomon, con lo stesso episodio che si ripete con sfumature diverse a seconda dello sguardo che narra, e che, allo stesso tempo, fanno tornare in mente alcuni lavori del grande regista d’animazione giapponese Satoshi Kon.
Uno stile registico e una fotografia mai invadenti, mai saccenti, sempre delicati e misurati. L’ultima prospettiva, quella di Minato e Eri, quella così innocente da restare confusa e non capire fino in fondo l’amicizia o forse qualcosa di diverso, resta quella che convince di più lo spettatore, che finalmente può smettere di fare congetture e aprirsi a uno sguardo libero, sottolineato dalle note del pianoforte dell’ultima meravigliosa composizione di Ryuichi Sakamoto.