Cosa ti viene in mente se senti parlare di robot?
Se la tua immaginazione si è nutrita di cartoni, o sei un cosiddetto millennial, probabilmente l’archetipo che ti si presenterà alla mente sarà Bender, il mordace amico cibernetico del cartone “Futurama”, sempre con un sigaro in bocca e una birra in mano.
In alternativa potresti pensare ai personaggi dei film Blade Runner, Star Wars, Io, Robot, o ancora immaginare creature meccaniche nate dall’assemblaggio di materiali metallici, dotate magari di un’artificiale voce automatizzata.
In verità, se si cerca nelle pagine della storia, forme di proto-robot esistevano già nell’antichità e la ricerca di macchine capaci di sostituire gli umani nei compiti più gravosi è un viaggio che parte da molto lontano.
Ma andiamo con ordine.
Come nasce il termine robot
Il termine “robot” compare per la prima volta in una pièce teatrale del 1921, dove il drammaturgo ceco Karel Čapek immagina delle creature del tutto simili agli umani, ma composte di materiale sintetico e destinate a lavorare al loro posto.
La trama si snoda intorno a un’umanità talmente indolenzita da non avere neanche più la forza di riprodursi e che, dopo articolate vicende, si arrende a cedere la Terra alla nuova specie robotica rivelandole il segreto della continuità della vita.
Vengono così tracciate le linee guida di un immaginario fortunato e persistente: quello della presa di potere delle macchine, che sarà ampiamente ripreso nella produzione fantascientifica dei decenni successivi e contribuirà ad alimentare i timori che ancora oggi si accompagnano alla rappresentazione collettiva della robotica.
Da oriente a occidente, la mitologia è densa di racconti che hanno come protagoniste creature artificiali: dalle aiutanti forgiate dal dio del fuoco e della metallurgia Efesto, di cui parla l’Iliade, all’androide meccanico del creato dall’ingegnere Yan Shi, raccontato nel III secolo a.C. dal classico taoista Liè Zĭ, o Libro del Vuoto Perfetto.
Gli autòmata di Erone e gli altri proto-robot
Ma la fantasia umana non si limita al mito: già nell’antica Grecia del primo-secondo secolo dopo Cristo, l’inventore e matematico Erone di Alessandria teorizza gli autòmata, cioè macchine capaci di muoversi autonomamente attivate da meccanismi idraulici o pneumatici.
Simili invenzioni si ritrovano nella Turchia medievale con i progetti del geniale ingegnere meccanico Al-Jazari, che nel suo Compendio sulla teoria e sulla pratica delle arti meccaniche studia macchine programmabili in grado di svolgere diversi compiti. Anche in Italia, nel 1300 troviamo leggende con protagoniste macchine umanoidi: il biografo Matteo de’ Corsini narra di un androide capace di rispondere a ogni domanda che viene distrutto dal filosofo e teologo Tommaso D’Aquino, e nel rinascimento Leonardo Da Vinci mette su carta il prospetto di un “automa cavaliere”.
Nei secoli successivi i proto-robot evolvono e mutano forma: da macchine come l’anatra digeritrice, un automa meccanico a forma di papera capace di simulare un finto processo di digestione progettato nel 1739 da Jacques de Vaucanson, si passa all’ottocentesco uomo a vapore di George Moore, androide che unisce all’energia meccanica quella termica tipica della rivoluzione industriale, fino ad approdare al primo robot che si avvicina all’immaginario moderno: il gigante cibernetico Elektro, progettato per l’Esposizione Universale di New York nel 1939.
La morale che ha però senso trarre da questo veloce excursus storico è un’altra.
Quando ci preoccupiamo degli sviluppi della robotica e della capacità delle macchine di somigliare sempre più agli umani, costituendo non solo il precedente per una ridefinizione filosofica dell’umano e delle sue mansioni, ma anche una minaccia esistenziale, siamo sicuri che i nostri timori siano ben indirizzati?
Certo, i nuovi strumenti come le intelligenze artificiali o i Large Language Models (come Chat GPT) forniscono un punto di discontinuità nello sviluppo della robotica, ma le nostre valutazioni sono davvero accurate e bilanciate rispetto ai rischi attuali?
In effetti, spostando lo sguardo dal futuro al presente, potremmo accorgerci che quella stessa tecnologia robotica e algoritmica sta già generando conseguenze preoccupanti nella sua portata sociale e politica. Ci sono software, ad esempio, che essendo allenati sui dati del mondo reale ne incorporano i pregiudizi e le discriminazioni, reiterandoli con ripercussioni profondissime verso le minoranze, come le donne e le etnie non bianche.
In conclusione, quindi, piuttosto che farci assorbire da un – pur attraente – panico futurista, potremmo renderci conto che la tecnologia cristallizza e promuove ben precisi valori sociali, e batterci affinché siano sempre più equi, etici, sensibili e attenti.