Un uomo vive serenamente in ospedale, confortato dalla sua routine priva di responsabilità.
Valerio Mastandrea: «L’ospedale è una metafora, la condizione è metaforica.»
L’arrivo di una nuova paziente, molto irrequieta, sconvolge la sua tranquillità, costringendolo a confrontarsi con le proprie emozioni e con il tema della morte.
«Tanti film parlano della morte. C’è sempre la morte, perché se un film parla della vita, come il nostro, non si può prescindere dal racconto della morte che comunque minaccia e aleggia intorno a noi.
Questo non è un film su un limbo, un purgatorio, un paradiso, un inferno. Il contesto in cui l’abbiamo ambientato è molto metaforico.»
Valerio Mastandrea: «Credo che fin quando la fragilità verrà trattata come difetto e non come virtù, il maschio avrà sempre codici a cui attaccarsi, che sono quelli di forza e virilità.
La fragilità, la vulnerabilità, sono un valore puro, soprattutto se ti fai attraversare da cose che ti portano in un’altra parte, magari in una parte migliore di te».
Valerio Mastandrea nel suo nuovo film, Nonostante, torna a vestire i panni di interprete e regista sei anni dopo Ride.
Il film, presentato oggi alla Mostra del Cinema di Venezia, inaugura il concorso Orizzonti e arriverà nelle sale a marzo 2025. Nel cast: Valerio Mastandrea, Dolores Fonzi, Lino Musella, Giorgio Montanini, Justin Alexander Korovkin, Barbara Ronchi, Luca Lionello e Laura Morante.
«Era forte il desiderio di raccontare una storia emozionante e l’amore è stato l’elemento che ci è venuto più spontaneo.
Volevamo narrare una storia d’amore, uno dei temi più complessi da affrontare, perché ognuno di noi ne ha vissuta una. Ci sono tanti film capolavoro sull’amore, ma è anche il pane quotidiano dell’essere umano. L’amore, l’odio, la vendetta sono tutti grandi temi da raccontare. Così abbiamo deciso di scrivere una bella storia d’amore», spiega Mastandrea.
Un uomo vaga dentro e fuori un ospedale, divertendosi ad interagire con i suoi occupanti (medici, infermieri, pazienti) senza esserne visto. Quell’uomo è in coma, e mentre il suo corpo giace in un letto ospedaliero la sua essenza va in giro e parla con altri pazienti al momento separati dai loro corpi mortali. Ma quando la vittima di un incidente automobilistico entra in stato comatoso e viene ricoverata in quella che era stata la sua stanza tutto cambia per quell’uomo che prendeva la propria solitudine come un gioco. E che ora dovrà cominciare a porsi qualche domanda in più su quanto, e come, ognuno di noi desidera stare al mondo.
«Lo dedico — racconta Mastandrea — a chi se la rischia, a chi non scappa di fronte a un’emozione così dirompente come quella di innamorarsi. Alle persone che senza accorgersene vivono nell’immobilità ma poi riescono a liberarsene e superare i limiti».
Il titolo arriva dalle parole dello slavista e poeta Angelo Maria Ripellino, scritte mentre era in sanatorio: «L’avverbio si fa sostantivo, a indicare noi tutti che, contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati da raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male».
Sui titoli di coda, la dedica al padre, Alberto. «È un film che parla di me, sì. E delle persone di cui mi circondo, capaci di vivere i legami in maniera autentica ma sincera, senza paura, anche difettosa. Mio padre era così».
Anche creare una società di produzione in tempi di crisi è una via di uscita. Si chiama Damocle, l’ha fondata con Zerocalcare, Francesco Tatò e Oscar Glioti: «La spada è il senso di responsabilità che sentiamo verso questo mestiere che è anche divertimento e intrattenimento!
E avrete visto il logo… Per ricordarci che comunque, nel fare questo mestiere, si portano in campo delle responsabilità, sempre, e che un film non è mai solo un film!
Quindi abbiamo questa spada che ci governa, da sopra, e che come ci muoviamo ci segue».