“White Noise” di Noah Baumbach, basato sull’omonimo romanzo di Don DeLillo, è il film d’apertura della settantanovesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
La pellicola per certi versi è un racconto apocalittico che, attraverso la sua satira, ci fa riflettere sulla nostra società odierna.
Tratto dall’omonimo romanzo di Don DeLillo, narra la storia del celebre professore di studi sulla figura di Hitler, Jack Glande (Adam Driver) e della sua famiglia, composta dalla moglie Babette (Greta Gerwing) e i loro quattro figli.
Ambientata negli anni ’80, l’opera di Baumbach ci porta ad affrontare e a confrontarci con la realtà in cui viviamo attraverso rimandi alla pandemia da Covid-19 o alla frase capitalista “produci, consumi, crepa”, senza fare, però, troppe prediche moraliste.
White Noise però allo stesso tempo presenta un problema che ha a che fare con la trasposizione del racconto: infatti si apre in un modo quasi straniante che rischia, col susseguirsi delle scene analoghe, di disorientare lo spettatore (soprattutto per chi non ha letto il libro).
D’altro canto bisogna però saper riconoscere la bravura di Baumbach nel come sa raccontare l’amore nei suoi momenti più terribili, e lo fa mostrandoci i suoi lati peggiori ma anche i migliori: il tradimento, le bugie, il saper restare e fidarsi dell’altro (anche se si viene traditi) e quel romantico desiderio di morire prima dell’altro per non soffrire troppo.

È una storia “strana” quella che ci mostra Baumbach, ma allo stesso tempo “normale” dove si riflette sulla paura della morte e di lasciare per sempre questo mondo.
White Noise, in conclusione, non è un film che eccelle per la storia, ma lo fa, sicuramente, per la sua regia e la sua estetica.