È possibile avere successo nel mescolare horror e cannibalismo con la tenerezza di un amore adolescenziale? Un’impresa difficile, eppure il nostrano Luca Guadagnino sembra esserci riuscito appieno, convincendo anche la stampa di tutto il mondo.
Bones and All di Luca Guadagnino
Bones and All, tratto dall’omonimo romanzo di Camille DeAngelis, è la prova che il duo Guadagnino-Chalamet è uno di quei sodalizi cinematografici che tirano fuori il meglio da entrambi i partecipanti (magari anche loro due seguiranno lo stesso percorso di DiCaprio-Scorsese). Il Suspiria poco riuscito di Guadagnino viene quasi completamente dimenticato dopo la visione di Bones and All e la delicata e naturale interpretazione di Chalamet nel film lo fa riscattare dalle ultime, più deboli, prove sul grande schermo.
Al centro, però, del film c’è Maren, interpretata da una bravissima Taylor Russell (Waves).
Ma Maren ha già compiuto diciotto anni e, in quanto finalmente maggiorenne, il padre la abbandona, lasciandole dei soldi e una cassetta da ascoltare. In questa, il padre racconta come Maren abbia avuto diversi episodi di cannibalismo negli anni, che lei probabilmente non riusciva a ricordare.
Ma sin dall’inizio del viaggio, la protagonista si trova ad incontrare un’altra persona come lei; si tratta di Sully, interpretato da un magnetico Mark Rylance. Anche Sully è un cannibale, che è riuscito a sentire l’odore di Maren da un chilometro di distanza. Maren scopre, così, che esistono altri come lei e che, tra di loro, possono riconoscersi dall’odore.
Sully la invita a mangiare con lui (sì, una persona, in fin di vita), le racconta la sua storia, la vorrebbe con sé per il resto del loro “viaggio”.
Maren, però, non si fida. Sully è un personaggio inquietante e di cui in effetti non ci si può fidare.
Perciò, scappa e torna al proprio viaggio personale. E durante questo viaggio conosce un ragazzo, poco più grande di lei e proprio come lei, che decide di aiutarla a trovare la madre (e se stessa).
Lee (Timothée Chalamet) ha un passato di cui non vuole parlare e una madre e una sorella che ama molto. Ma non riesce a stare nella sua città più di qualche giorno, perciò, anche lui viaggia molto.
Tra lui e Maren nasce piano piano un sentimento forte, ma delicato, per certi versi un po’ timido. Entrambi cannibali, che comprendono la vita che sono costretti a vivere, da nomadi e, la maggior parte delle volte, da persone “cattive”.
Perciò i due si trovano, si scontrano e si ritrovano, in quelle dinamiche tipiche delle relazioni più normali e degli alti e bassi dell’adolescenza.
Nonostante siano giovani ragazzi, poiché sono ciò che sono, vengono costretti a diventare adulti in fretta, per poter sopravvivere in un mondo ostile che li etichetterebbe come “mostri” e darebbe loro la caccia.
Nonostante le scene non adatte ai più deboli di stomaco, il film non oltrepassa mai il limite, concentrandosi maggiormente sul viaggio reale ed interno che compiono Maren e Lee.
I due scoprono se stessi e l’altro durante il viaggio, cercando di capire come vivere la loro vita, da persone normali.
Non c’è giudizio riguardo il cannibalismo. È un tratto delle loro personalità, qualcosa di inevitabile, che solo loro possono decidere come gestire.
I cannibali di Guadagnino non sono come quelli che abbiamo già visto al cinema o in tv. Sono più simili a zombie o a dei veri e propri animali, che si piegano sulla loro “vittima” e se ne cibano direttamente, senza preamboli e senza preoccuparsi di sporcarsi.
Eppure, nonostante queste scene crude e, per molti, disturbanti, la tenerezza con cui viene dipinta la storia dei due ragazzi, è innegabile.
L’adolescenza, già affrontata in Chiamami col tuo nome e We are who we are, torna in questo film in una nuova chiave che non preclude però alcune questioni tipiche di quel periodo; l’importanza della presenza di figure genitoriali, lo spaesamento, i primi amori che sono i più puri, la pressione di dover prendere decisioni spesso fondamentali.
Ma Maren e Lee sembrano fortunati, proprio perché si sono trovati e hanno voglia di vivere come si deve, come una vera coppia che lavora, paga un affitto e si innamora sempre di più.
Ad accompagnare l’intenso viaggio dei due protagonisti, tra personaggi grotteschi, madri più o meno materne e vittime di passaggio, ci sono i paesaggi nord americani e le musiche di Michael Rezner e Atticus Ross. Queste ultime giocano con il mix di generi del film stesso, accompagnando perfettamente le bellissime scene di viaggio, la tensione delle scene dai toni thriller e quelle più drammatiche.
E se i due protagonisti regalano delle performance intense per tutto il film, i personaggi secondari, anche quelli che compaiono per una o due scene, bucano lo schermo (e l’anima).
Il cannibale di Michael Stuhlbargh (già papà dell’Elio di Timothée Chalamet in Chiamami col tuo Nome) compare per circa cinque minuti, ma la sua performance e il suo personaggio lasciano veri brividi agli spettatori. Così come Chloë Sevigny (che ha lavorato con Guadagnino nella serie We are who we are), madre di Maren che, senza dire una parola, ci spezza (mangia?) il cuore.
E non si può non parlare di Mark Rylance che, senza fare spoiler, è un villain perfetto per un horror o un thriller psicologico.
Alla fine di tutto, ciò che ci fa provare più ribrezzo, non sono le scene di cannibalismo, ma sono proprio le scene dove Mark Rylance mostra tutto il suo potenziale.
Commovente e poetico, ma anche spaventoso e riflessivo, l’ultima fatica di Guadagnino apre i nostri cuori e vi si nasconde per bene, per rimanere lì più tempo possibile. Un piacere per gli occhi e tutti i sensi, non c’è ragione per cui anche questo film non possa portare il regista italiano agli Oscar. Anche se non dovesse arrivarci, però, il film ha già conquistato i cuori degli spettatori alla Mostra del cinema di Venezia e continuerà sicuramente a farlo alla sua uscita in sala a Novembre.