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Una scoperta tutta italiana: Mytho, il gene della giovinezza

In Aleph, da oltre trent’anni, realizziamo laboratori nei quali le ricercatrici e i ricercatori amino lavorare per rendere il mondo un posto migliore. E quello che vi raccontiamo oggi è un progetto davvero speciale!

Responsabile della ricerca è il professor Marco Sandri, docente del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e Principal Investigator dell’Istituto Veneto di Medicina Molecolare, che ha coordinato la ricerca che ha condotto alla scoperta di un gene, MYTHO, responsabile dell’invecchiamento cellulare.

Iniziamo con qualche domanda personale sulla sua gioventù e sulla sua formazione universitaria. Ci racconta un po’ dei suoi studi e della sua formazione? La medicina è stata fin da subito la sua prima scelta?

«Sì, la medicina è stata fin da subito la mia scelta.
Sono sempre stato attratto dall’idea di curare le persone e gli animali, fin da piccolino, forse perché sono cresciuto in un ambiente di medici, in quanto mio padre e mio zio lo erano. Man mano che sono cresciuto ho sempre coltivato l’idea di diventare dottore.
Mi sono infatti laureato in Medicina a Padova specializzandomi poi in Patologia Clinica.
E poi, finita la specialità, mi è rimasto il dubbio, mi è rimasta la voglia di continuare a fare ricerca, anche perché avevo fatto una tesi sperimentale già a medicina e ho sempre coltivato la ricerca anche durante la specialità.
Quando ho finito, ho tirato la monetina, chiedendomi quale fosse la cosa che più mi piaceva. Il mio mentore all’epoca, un professore di medicina che si occupava di ricerca in campo biomedico, mi disse: “Marco, mettiti alla prova, vai all’estero e prova a vedere se effettivamente la ricerca fa per te, ma non qui vicino, devi andare in America, ad Harvard, una delle sedi più prestigiose”.
E così è stato, sono stato a Boston per due anni e mi è piaciuta. È stata molto affermativa la presenza di questi due anni spesi ad Harvard, e quando sono ritornato in Italia ho deciso di continuare a fare il ricercatore in campo medico.»

Qual era il suo più grande sogno da ragazzo e può dire oggi di averlo realizzato?

«La mia cultura medica mi ha sempre influenzato, il mio più grande sogno, come tutti i medici, è poter trovare una cura ad una malattia.
Diciamo che il sogno non si è ancora realizzato completamente, anche se, studiando i meccanismi coinvolti in alcune patologie e scoprendo nuovi geni, la mia speranza è quella di riuscire a trovare una cura e un farmaco per le diverse situazioni patologiche.»

Avrebbe mai immaginato da giovane di poter arrivare ad una scoperta così importante nel campo della ricerca?

«Da giovane la speranza c’è sempre stata e, diciamo, con gli anni, il sogno si è anche avverato in diversi aspetti. Lo scopo di ogni ricercatore è quello appunto di “scoprire” qualcosa, di scoprire un meccanismo, un nuovo gene, un nuovo farmaco. Quindi sì, l’obiettivo è stato raggiunto, nel senso che, comunque, nella mia carriera, ho scoperto diversi nuovi geni. MYTHO è uno degli ultimi che ho scoperto, che influenza appunto l’invecchiamento.»

Qual è secondo lei la dote più importante che debba avere un ricercatore o un aspirante tale?

«Io penso che siano tre le doti che un ricercatore debba avere. La prima è la curiosità, che è il driver della ricerca. La seconda è la motivazione, e la terza, la più importante, è la passione.

Se manca anche solo uno di questi tre aspetti, è difficile che si possa poi riuscire nel proprio intento. La passione e la curiosità sono ciò che spinge ogni giorno i ricercatori a fare il loro lavoro, ma la motivazione alla base deve essere forte. Purtroppo non sono sempre rose e fiori, non sempre gli esperimenti riescono a determinare un progresso nella ricerca, per questo bisogna essere anche molto motivati nel resistere alla tentazione di abbandonare e, al contrario, persistere nel riprovare.»

Qual è oggi, secondo lei, il punto di forza della ricerca in Italia? E qual è l’anello debole? E come ci poniamo noi Italiani nel modo di fare ricerca rispetto al mondo?

«Io penso che l’Italia sia un paese in cui la gente abbia una dote fondamentale, che è quella della creatività.
Abbiamo poi fantasia, immaginazione, capacità di arrangiarci molto bene e di rimetterci in gioco per trovare delle buone soluzioni. Siamo un po’ come degli equilibristi che sanno affrontare ogni situazione.
Il punto dolente rispetto ad altre nazioni è sicuramente la mancanza di fondi e finanziamenti per la ricerca.
Se avessimo i soldi che altri stati hanno, come i paesi anglosassoni tipo America, Inghilterra, Germania e Francia, probabilmente avremmo anche altri livelli di tecnologia e di conoscenze, cose che attualmente importiamo tanto dall’estero.
Tanti nostri ricercatori vanno all’estero e lì fanno la differenza.»

Quali sono le fasi di una ricerca scientifica? Da dove si comincia? Qual è l’input iniziale?

«Il punto iniziale rimane sempre, come per un artista, l’idea, l’ipotesi, la cosiddetta ispirazione, che arriva leggendo letteratura, osservando.
Avere l’ispirazione vuol dire attuare una linea strategica di esperimenti per poter dimostrare effettivamente che la propria ipotesi sia vera.
Questa serie di esperimenti devono essere fatti in maniera lineare, in maniera tale che possano via via confermare l’ipotesi. Se tutto va bene, e parliamo comunque di anni, si può poi gioire dei risultati.
La cosa più bella è poter confermare che la propria idea iniziale, appunto l’ipotesi, sia vera!»

Una ricerca informatica, questo è stato davvero il punto di partenza della vostra ricerca?

«Diciamo che non è proprio così, nel senso che la ricerca bioinformatica ad oggi è sicuramente importante perché grazie alle tecnologie disponiamo di un sacco di dati. Pensate al genoma, al transcrittoma, tutte queste omiche che determinano un sacco di potenziali geni o proteine interessanti da studiare.
Oltre a questo però bisogna sempre avere un metodo per poter ridurre i dati a disposizione e selezionare i pochi candidati da studiare.
La ricerca bioinformatica, se fatta in maniera intelligente, può aiutare a identificare quei tre o quattro geni da studiare in laboratorio con diversi metodi sperimentali. È quindi essenziale, aiuta, ma senza una formazione, una forma mentis, un’intuizione, un metodo, la ricerca informatica non porta poi a dare effettivamente scoperte sostanziali.»

La ricerca sul verme C. Elegans: il C. Elegans è un verme lungo un millimetro che vive nel suolo in regioni temperate. Com’è possibile utilizzare un organismo che è apparentemente così piccolo e semplice come modello per lo studio sull’invecchiamento cellulare?

«Spesso le scoperte più importanti sono state fatte proprio usando questi piccoli animali, come per esempio anche la drosofila, il moscerino, o anche le piante e la natura.

Perché il C. Elegans? Perché ha una genoma comune all’uomo, ossia ci sono tanti geni in comune tra questo verme e l’uomo e i mammiferi in generale, e poi anche perché questo animale vive relativamente poco, un paio di settimane.

I primi geni di longevità sono stati scoperti facendo proprio delle mutazioni nel genoma di questo animale, vedendo come risultato che il C. Elegans viveva di più o di meno.
Usando questo verme o addirittura il lievito si sono scoperti tanti altri geni che sono collegati al sistema di morte cellulare, e chi ha fatto queste scoperte ha vinto poi il premio Nobel (le scoperte dei processi dell’autofagia e dell’apoptosi sono avvenute utilizzando rispettivamente il lievito e il verme).
Quindi in sostanza è un animale modello che aiuta a scoprire dei geni nuovi e proprio perché ha una vita corta non dobbiamo aspettare tre o quattro, dieci o addirittura vent’anni per poter capire se un gene ha un ruolo importante nell’allungare o accorciare una vita.»

Che cos’è MYTHO e perché vi siete concentrati su di esso?

«Durante la ricerca informatica cercavamo dei geni che rimanessero ben conservati tra le specie: se la sequenza di alcuni geni trovati fosse rimasta uguale sia nel verme che in altri modelli animali più evoluti, voleva dire che avesse una rilevanza biologica importante e che fosse importante non cambiarne la struttura. Quindi questo è stato il primo movens per il quale ci siamo concentrati su MYTHO.
Il secondo motivo è che questo gene si trova sotto il controllo di una via di segnale che sappiamo essere importante per la longevità e che quindi controlla una cascata di segnali importanti per mantenere animali in salute.
In ultimo abbiamo cercato, nel potenziale gene, che ci fossero delle sequenze coinvolte in un processo di pulizia cellulare che si chiama autofagia.
Riassumendo insomma, questa ricerca informatica ha portato all’identificazione di MYTHO, un nuovo gene che fosse conservato tra le specie, che fosse al controllo di una via di segnali che allungano la vita e che avesse delle sequenze importanti per la pulizia cellulare.»

Cos’è quindi l’autofagia? E MYTHO che ruolo assume all’interno di essa?

«L’autofagia è il sistema con cui la cellula può rimuovere tutte quelle proteine o organelli che vengono danneggiati durante la normale vita cellulare.
È un sistema che ha anche un’importante funzione bioenergetica relativamente a tutto quello che viene degradato. È un po’ come i camion dell’immondizia, i quali portano i rifiuti all’inceneritore e li distruggono.
Però quello che viene distrutto viene poi riciclato dalla cellula come fonte energetica per poter generare nuova energia, nuove proteine, nuovi organelli.
Quindi è un sistema molto importante perché la cellula possa mantenersi in funzione e per questo ha un impatto sull’autofagia, sulla sopravvivenza. E MYTHO è proprio un gene che regola le fasi iniziali di questo processo di rimozione dei danni, dell’organello che viene danneggiato.»

La ricerca ha dimostrato quindi che spegnere questo gene fa invecchiare più velocemente, mentre tenerlo attivo aiuta a mantenerci in salute, è corretto?

«Sì, è corretto. Spegnere vuol dire diminuire la sospensione e accendere vuol dire aumentare la sospensione. Quindi questo gene è regolato a livello sia di trascrizione che come proteina propria, con qualità di proteina.
E quindi, per esempio, gli stili di vita non in salute, ovvero per esempio quelli in eccesso di nutrimenti, che vanno ad impingere proprio in quella via di segnale che regolano l’espressione di MYTHO, fan sì che si spenga.
Questo porta ad una diminuzione della possibilità di rimuovere le proteine danneggiate e gli organelli danneggiati e porta ad un invecchiamento prematuro della cellula. Viceversa, alcuni aspetti dietetici come la restrizione calorica o l’attività fisica ne aumentano il livello di espressione e aiutano quindi il sistema autofagico a funzionare meglio e a rimuovere tutto quello che è stato danneggiato durante la vita della cellula mantenendo la cellula in funzione molto più a lungo.»

Prof. Sandri, ci darebbe una spiegazione di questo grafico?

«La cellula è compartimentalizzata, ossia sono diversi i comparti che permettono la costruzione delle proteine e la produzione di energia.
Si può vedere anche il nucleo che serve per trascrivere i vari RNA.
Nella cellula c’è un organello, che nel grafico ha la sigla ER, ed è il sistema che produce le proteine e la zona dove crescono e si formano gli autofagosomi.
È raffigurato un sistema che isola e ingloba le proteine danneggiate e gli organelli che stanno generando segnali di morte dentro una vescicola e li porta alla distruzione all’interno del lisosoma.
MYTHO è quindi importante affinché questo organello possa crescere e diventare una vescicola e che si attivi la formazione dell’autofagosoma.
Se non c’è questo gene quindi questa vescicola non si forma in maniera appropriata e questo determina, per esempio, che le nostre centrali energetiche, i mitocondri, comincino a non funzionare più bene. Ciò determina non solo una diminuzione dell’energia e quindi un problema di crisi energetica della cellula, ma anche segnali di morte che danneggiano il DNA, come le specie reattive dell’ossigeno che sono fortemente tossiche.
Questo contribuisce a determinare danni multipli per la cellula, incluso il DNA, che porta la cellula a diventare precocemente vecchia, determinando quindi una senescenza cellulare.
L’impatto non è solamente sulla vita, ma anche sulla salute delle cellule.
Nel verme ciò si manifesterà con una lentezza nei movimenti, nella persona anziana con una difficoltà per esempio ad alzarsi alla sedia, ad alzarsi a letto, a mangiare, e a fare le attività di tutti i giorni, e questo porta chiaramente all’accorciamento della vita, ossia ad una mortalità precoce.»

“Mito, il gene della giovinezza”: sembra quasi di parlare di un Elisir di estetica ed eterna giovinezza. In realtà c’è anche dell’altro. Mitho, il gene della cacchessia tumorale. È questo un altro aspetto della vostra interessantissima ricerca?

«Sì. Abbiamo detto che MYHTO è implicato in tutto quel sistema che rimuove le proteine e gli organelli danneggiati e che se iperattivato crea un effetto opposto, ossia comincia a rimuovere anche tutte le altre parti della cellula determinando il cosiddetto autocannibalismo della cellula stessa che si auto-mangia, si auto-digerisce, si auto-distrugge. Quindi questi geni che sono importanti per la vita e la funzione cellulare hanno un effetto collaterale: se superattivati portano a distruggere l’intera cellula.

I geni della longevità hanno quindi una specie di doppia faccia: possono essere utilissimi per rimuovere le cose che non vanno, ma se iperattivati possono portare ad una distruzione su ampia scala.

Pensiamo ad una centrale nucleare che se danneggiata può esplodere. Lei di per sé quando funziona bene ha il grande ruolo di dare energia alla nazione, ma se viene alterata la sua funzione nei suoi normali meccanismi determina la morte di tutto il territorio intorno.

Quando c’è un tumore si assiste ad uno squilibrio metabolico che induce ad una superattivazione del sistema autofagico di distruzione che determina il cannibalismo della cellula.
Quando c’è la crescita tumorale, per esempio, le cellule dei nostri muscoli cominciano a scomparire e a diventare più piccole, inducendo la cachessia, che è una perdita di peso dovuta ad una eccessiva perdita di grasso e di tessuto muscolare che porta, quando comincia a restaurarsi, alla morte del paziente neoplastico oncologico.»

Esistono riscontri non solo fisici ma anche mentali e psicologici a seguito della modulazione del gene MYTHO? Cioè, la modulazione di questo gene ha anche una correlazione con la modulazione delle facoltà mentali dell’individuo e non solo fisiche?

«Questa è un’ipotesi interessante perché questo gene è espresso, oltre che nel muscolo scheletrico e cardiaco, nei neuroni del cervello. Quindi l’ipotesi che abbia un ruolo anche a livello cerebrale per mantenere le funzionalità intellettivo-neuronali, è possibile.

Diciamo che questo è uno dei prossimi studi che dobbiamo fare per capire il suo ruolo all’interno del cervello e se la disfunzione e inibizione della sua attività possa portare a malattie neurodegenerative, a problemi di memoria e ad un’alterata di funzionalità neuronale. Quindi è il next step, uno dei prossimi punti.»

Quindi il gene mito è stato studiato oltre che negli animali anche nell’uomo e nel paziente oncologico?

«Sì, è stato uno dei crismi che ci ha permesso di identificare i livelli di espressione in questi geni che possono essere fortemente indotti in diversi tessuti e in diverse condizioni.
Come detto prima, quando c’è una iperattivazione di questo gene, si iperattiva il sistema di autofagia che degrada troppo le componenti cellulari determinando un cannibalismo della cellula. Osservando l’espressione dei geni in diverse condizioni cataboliche (gene expression profiling) tra cui anche il paziente oncologico, si è visto che era uno dei pochi geni conservato e presente. Anche nel paziente vecchio, non in salute, sarcopenico, fortemente debole ed allettato, incapace di muoversi perché ha un problema di forza muscolare ove non si riesca a garantire omeostasi e funzionalità contrattile, anche lì era alterata la sua espressione, ovverosia era abbattuta. Mentre, al contrario i soggetti anziani molto attivi, in salute, longevi, avevano dei livelli di espressione del gene MYTHO più alti.»

Quindi in che modo i risultati ottenuti dalla vostra ricerca possono dare un contributo allo studio delle patologie tumorali? Cioè se noi facessimo invecchiare quindi precocemente le cellule tumorali e queste venissero eliminate autonomamente dal nostro organismo con il processo che lei ci ha spiegato dell’autofagia, avremmo trovato una soluzione alle patologie tumorali?
«Io direi quasi l’opposto, nel senso che poiché questo gene controlla la pulizia cellulare, previene anche i danni al DNA che possono determinare lo sviluppo di malattie oncologiche; infatti il processo implicato nei danni al DNA dati da disfunzioni dei mitocondri è uno dei meccanismi che porta allo sviluppo di tumori.»

Quindi più che attivare MYTHO per uccidere le cellule tumorali, sarebbe bene attivarlo per mantenere le nostre cellule in salute e prevenire – piuttosto che curare – l’insorgenza dei tumori.

Progetti futuri? Su cosa si concentreranno, se si può dire, le sue prossime future ricerche?

«Gli aspetti su cui concentrarsi sono tanti.

Vorremmo:

  • capire molto meglio il ruolo che MYTHO ha nei diversi mammiferi e non solo nel verme;
  • studiare meglio il ruolo che questo gene ha in diversi tessuti e organi, soprattutto nel cervello (potenziali effetti a livello di mantenimento del benessere neuronale);
  • approfondire l’aspetto di prevenzione dell’insorgenza dei tumori;
  • concentrarci sulle malattie genetiche ed ereditarie. Siccome è un gene fortemente conservato, è possibile che in alcuni pazienti con malattie genetiche orfane di un gene, MYHTO abbia perso la sua funzione o sia mutato.

La speranza è che questi pazienti con malattie genetiche possano definire la causa della malattia genetica perché magari MYTHO è mutato.»

La ringrazio, complimenti per questa interessante ricerca e per i grandi risultati ottenuti e grazie infinite per il tempo che ci ha dedicato!
«Grazie a lei per l’intervista e per aver avuto l’occasione di raccontare un po’ quello che facciamo ogni giorno in laboratorio.»

Antonella D'Amato
Una giovinezza passata al liceo Classico, tra il profumo delle pagine dei libri di greco e latino; ad oggi una laurea in Comunicazione Spettacolo & Media, e attualmente un Master in Gestione delle Risorse Umane. Fin da piccolissima appassionata di moda e di tutto il suo indotto, lavora da sempre per una casa di moda milanese. Si definisce una donna poliedrica, dall’anima profonda ma dal cuore leggero, in continuo fermento. Amante della scrittura, della psicologia e del canto; le sue passioni riguardano tutto ciò che sia capace di generare conoscenza, emozioni e connessioni. Crede che nella vita il dono più grande di cui far tesoro sia la possibilità di esprimere se stessi, che non sia mai troppo tardi per farlo, e che la scrittura sia uno dei più potenti e meravigliosi mezzi per riuscirci. Si definisce una ”scrittrice tradizionalista”, ancora non troppo convinta di cedere la penna in favore della tastiera. Il suo mantra è una fusione tra due detti di personalità d’epoche diverse: “Always be curious” (Manolo Blahnik, stilista spagnolo) e “Sic itur ad astra” (Virgilio, Eneide).

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