A scuola ci insegnano che Cristoforo Colombo “scoprì” l’America nel 1492, ma la conquista da parte del navigatore genovese è solo l’ultimo epocale tentativo di colonizzare il Nuovo Mondo.
Già i Vichinghi ci erano arrivati e comunque il continente americano era abitato da millenni! Da diverso tempo gli studiosi si interrogano su quando il primo sapiens, grazie allo stretto di Bering, sia arrivato in America.
I dati paleontologici
Fino a poco tempo fa si pensava che l’Homo sapiens fosse arrivato nelle Americhe circa 10-15mila anni fa, quando grazie ai ghiacci il passaggio di una miriade di specie dal continente asiatico a quello americano, uomo compreso, era consentito senza dover attraversare il tratto di mare che divide la Russia dall’attuale Alaska.
Alcuni studi (2) retrodatavano l’arrivo della nostra specie almeno di 20mila anni, con un ritrovamento messicano di resti di cibo e animali che porta a pensare che sapiens fosse presente in quelle zone almeno 30mila anni prima del picco glaciale.
Uno studio più recente (1) attesta la presenza di esseri umani in Brasile a 25mila anni fa, grazie al ritrovamento di pendenti realizzati a partire da ossa di bradipo gigante (Glossotherium phonesis). Sono stati rinvenuti anche diversi strumenti per la produzione e la rifinitura di questi ciondoli.
Alcuni studiosi ipotizzano addirittura che il genere Homo (forse la specie H. erectus) avesse raggiunto l’America già 130mila anni fa, cioè quando il sapiens cominciava ad uscire dal suo continente natale, l’Africa.
Il ruolo delle impronte
Col rinvenimento di impronte umane fossili (4) in Nuovo Messico (in USA) datate tra 23 e 21mila anni fa si comincia a confermare ulteriormente la presenza umana nel continente americano durante l’ultimo massimo glaciale (tra 26,5 e 20mila anni fa). E si conferma anche l’interazione con altre specie: le impronte non sono solo umane ma anche di bradipi giganti, canidi, mammut.
A suggerire un’occupazione stabile di quel territorio, vi sono anche impronte di bambini: Homo sapiens viveva, cacciava e allevava la prole in quella zona, non era solo di passaggio.
Questo studio era stato accolto con scetticismo da una parte della comunità scientifica, ma un team di scienziati (tra cui alcuni di quelli che avevano partecipato alla ricerca del 2021) ha effettuato una datazione più rigorosa (5), confermando i risultati trovati: è altamente probabile che gli umani fossero effettivamente presenti in New Mexico in quel periodo.
Le datazioni
La datazione del primo studio era stata effettuata al radiocarbonio dei semi della pianta acquatica Ruppia cirrhosa, trovati inglobati all’interno delle impronte fossili.
Il radiocarbonio, o 14C, è una forma radioattiva di carbonio, che si forma nell’atmosfera terrestre quando i raggi cosmici entrano in collisione con l’azoto. La Terra riceve una pioggia costante di 14C, che viene assorbito dalle piante e dagli animali durante la loro vita.
Poiché il 14C decade in carbonio stabile a una velocità nota, gli scienziati possono esaminare il rapporto tra l’isotopo radioattivo (14C) e quello stabile (12C) in un campione organico e determinarne così l’età alla morte.
I risultati del 2021 del team erano stati contestati di poca attendibilità, a causa del fatto che la pianta usata per la datazione fosse acquatica: l’acqua, infatti, può essere un serbatoio di carbonio importante. Questo potrebbe comportare che il carbonio rilevato nel campione potrebbe essere quello dell’acqua e non quello della pianta: ciò porterebbe a un effetto di “invecchiamento” del campione, in quanto la percentuale di 14C misurata è più bassa, essendo diluita nel 12C dell’acqua.
Le nuove analisi: un aiuto dal polline e dal quarzo
Per avere un risultato più sicuro, il team ha (come si fa spesso) effettuato delle altre analisi in parallelo: sono stati raccolti i pollini di conifere dallo stesso strato geologico delle impronte e dei semi di Ruppia. Le conifere sono piante terrrestri, quindi la datazione ottenuta non era sottoposta alla stessa probabilità di errore del carbonio acquatico.
Sono stati così datati al 14C 75 mila granelli di polline per ogni campione.
È stata eseguita anche una datazione di tipo diverso, tramite la OSL (luminescenza stimolata otticamente) sul quarzo trovato nello strato. Questa tecnica consente di determinare l’ultima volta in cui un minerale è stato esposto alla luce solare.
Entrambi i risultati erano del tutto coerenti con i risultati precedenti. Il polline delle conifere variava da 22.600 a 23.400 anni fa, e il quarzo vide l’ultima volta la luce solare circa 21.500 anni fa.
Ovviamente questi risultati, per quanto sorprendenti, non possono scrivere la parola “fine” sulla storia della conquista del continente americano da parte della nostra specie e, più in generale, del genere Homo.
Ma comunque ci restituiscono due concetti fondamentali per chi si occupa di ricerca scientifica: innanzitutto occorre sempre prepararsi a esser smentiti nelle nostre precedenti certezze e a rimettere tutto in discussione alla luce di nuovi dati (per quanto riguarda l’evoluzione umana questo è particolarmente vero) e, inoltre, la collaborazione di più figure professionali che possono applicare diverse tecniche di indagine e saperne interpretarne i risultati, è sempre più importante per avere un contesto il quanto più accurato possibile.