Il 12 maggio 1947, la rivista Life dedica una pagina intera a una foto scattata da uno sconosciuto studente di fotografia, un certo Robert C. Wiles. È l’immagine di una ragazza che si era suicidata, il primo maggio, buttandosi dalla cima dell’Empire State Building, nel cuore di New York.
È morta ma non sembra morta: è una bella addormentata, la lamiera di una macchina, che non doveva essere lì, l’ha fermata. Le si è avvolta intorno come un lenzuolo di seta. Il suo mistero nascosto dagli occhi chiusi, sul dolce volto intatto.
Robert C. Wiles. Sei stato baciato dagli dei per trovarti lì, esattamente in quell’istante. O forse è stata lei a chiamarti. Qualcuno vi ha fatto incontrare. E il vostro monologo è diventato un dialogo.

«Prima del volo, quella mattina, ci fu un cappotto chiaro piegato con cura e abbandonato sul parapetto. Prima del cappotto, ci fu un piccolo portatrucchi marrone pieno zeppo di fotografie ricordo, alcune sgualcite, vecchie, toccate così tante volte da essere parzialmente cancellate, quasi tutte vicino agli occhi; e sulle guance. Prima delle fotografie ci furono i soldi, nel portafogli scuro. Prima del portafogli ci fu un’agendina color dell’ebano o del cuoio conciato, con gli spigoli smussati, i segni delle dita che tante volte l’avevano sfiorata come a rassicurarla, imbottita di tracce di vita. Prima dell’agenda ci fu un biglietto d’ingresso per la terrazza panoramica dell’Empire State Building, acquistato alle ore dieci e trenta del primo maggio dell’anno millenovecentoquarantasette.
Ed ecco, il momento: non hai più nulla da dire a nessuno.
Persino l’amore non è più quello che ricordavi, nemmeno i sentimenti sono immuni al cambiamento. Se ti butti, da qui in poi, quanto rischi?»
Io ci ho provato, lo giuro. Ho creduto di potercela fare.
Ma poi ogni giorno, praticamente ogni giorno, qualcosa mi spezzava il cuore. Da fuori non si vede niente, non lo sente nessuno. Ma lo fa. Crack. Proprio così: crack.
L’eco di questo crack ha raggiunto le orecchie (e l’anima) di Nadia Busato.
Successe così: trovai la fotografia di Wiles, il suo ritratto funebre di Evelyn. Ne rimasi stregata.
«Mi interessai alla storia della fotografia e, naturalmente, a lei. Presi appunti, cominciai a lavorarci; ma non sapevo davvero bene perché volevo scriverne. Ciclicamente studiavo e raccoglievo materiale che passava da un computer all’altro, da un archivio dati all’altro. E quando ho pensato seriamente di mollare è sempre successo qualcosa che mi ha motivato a proseguire.»

«Non è un cadavere qualunque e merita di non essere una ragazza qualunque. Non sappiamo niente di lei? Vero. E così dev’essere. Dobbiamo continuare a non sapere nulla di lei. Non ci interessiamo alla sua storia, ci disinteressiamo completamente del chi, del come, del dove e soprattutto del perché. Qui e ora. Come nel teatro. E il qui e ora ci dicono che è un cadavere affascinante, composto in una foto così intensa da sembrare una donna addormentata. Non è una foto di cronaca, è qualcosa che ferma il resto – le macchine, le persone, il cuore. Ed è così che la offriremo ai lettori: perché aprano la pagina e tutto si fermi. Non è la morte che pubblichiamo, ma la bellezza di ciò che ci terrorizza e ci affascina. Il mistero. Questo è quello che dobbiamo rispettare. Mentre tutto il resto continua ad andare e noi lasciamo che accada. Quest’immagine è un finale, un sipario che si chiude, l’ultimo titolo di coda.»
Chi era Evelyn McHale?
Posso dirti chi è oggi per me: un fantasma amico. Una donna che si è tolta la vita perché non aveva possibilità di ricercare liberamente la sua personale felicità, una persona che rifiutava un ruolo imposto da pressioni sociali e reclamava il suo diritto a essere solo se stessa, al di là di essere utile nel ruolo di “buona moglie”.
Chi fosse lei nessuno può davvero dirlo: noi soli conviviamo con tutte le persone che siamo lungo la vita, viviamo le nostre contraddizioni e abitiamo i nostri conflitti. Ma chi incontriamo, l’altro da noi, avrà di noi un’immagine che si imprimerà nella sua mente come risultato di una serie di coincidenze e di particolari in luce: esattamente come nella fotografia.
«Non sono fatta per la vita: questa vita qui, quella del mondo – di tutto il mondo – a me spezza il cuore. E quando il cuore ti si frantuma, anche tu ti tieni insieme come puoi: ti rattoppi, ti leghi; e speri che niente possa più entrare.»
Io non lo so come fanno gli altri. A me le emozioni arrivano tutte addosso come proiettili.
Cos’è stata Evelyn McHale?
L’esplosione incontenibile della libertà vera, quella che non ha più legami con nulla, che non ha limiti o confini; quella che distrugge ciò che non vuole ricostruire. L’ho rimaneggiata 13 volte, questa testimonianza, trovando una direzione attorno cui ruotare la domanda finale (un perché, un come mai, il che cosa) per fare di lei il fantasma dei nostri lutti. La sua visione è difficile, forse egoista, ma chiarissima nel non voler spartire con il mondo le innaturali contraddizioni dell’essere, l’auto-sgretolamento delle certezze tanto faticosamente costruite.
Dopo tante ricerche professionali e riflessioni personali, sei riuscita a trovare la risposta alla domanda che tutti si sono posti… Perché?
Dopo molti anni sono riuscita a smettere di farmi questa domanda. Un risultato davvero catartico, per me.
Noi abitiamo il tempo in cui ci aspettiamo di conoscere la verità.
Quest’astrazione intorno a cui si dipana il pensiero occidentale fin dalle sue antiche origini ci sembra oggi palpabile grazie alle certezze che ci offrono la scienza e la tecnologia. I dati ci promettono di predire il futuro, le memorie digitali ci illudono di lasciare traccia di noi oltre la nostra stessa morte fisica; conosciamo il funzionamento fisiologico di ogni parte del nostro corpo e siamo sull’orlo di comprendere pienamente i meccanismi del cervello.
Osserviamo e spieghiamo l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande. E in questo tempo di risposte, siamo angosciati da ciò che non conosciamo, vediamo fiorire follie animiste, assistiamo impotenti all’ascesa del fanatismo religioso e di distorsioni neo-totalitarie. Più facciamo luce sulla nostra vita, più quella si popola di fantasmi. Per questo ho smesso di cercare una verità: mi sembrava molto più onesto e utile scrivere un libro in cui ogni lettore potesse fare pace con le proprie ombre; esattamente come ho fatto io.

Che cosa ha visto Andy Warhol nella fotografia di Evelyn McHale, per desiderare di trasformarla in una sua opera d’arte?
Sarebbe meraviglioso poterlo chiedere a lui. Warhol era un uomo di un’intelligenza scoppiettante, davvero libera da ogni schema, geniale per quanto riuscisse a interpretare senza barriere le tendenze del suo tempo.
L’incontro con la fotografia del cadavere di Evelyn arrivò in un momento in cui Warhol era ossessionato dal suicidio. Un suo caro amico, il danzatore Fred Herko, si era ucciso davanti a lui lanciandosi dalla finestra, nel mezzo di una festa che aveva dato proprio per il suo suicidio. Warhol si rimproverò a lungo di non aver avuto con sé una telecamera per filmarlo.
Il 1962 fu un anno speciale per Warhol: venne definitivamente consacrato a re della pop art, iniziò a immaginare l’anticinema e si spinse a voler rendere pop la spettacolarizzazione della morte.
Quando trova la foto di Evelyn ha una folgorazione: i media pubblicano foto di cadaveri e le persone amano vedere quelle immagini.
I due poli, la fascinazione e l’orrore per la morte altrui, sono interconnessi e magnetici. La morte è la cosa più pop della cultura di massa. Quell’anno, oltre a Evelyn (a cui lavorerà molto, in diverse versioni di “Fallen Body”) usa altre tre immagini di suicidi. Fanno tutte parte di “Death and Disaster”, il suo ultimo vero ciclo creativo, finito nel 1967 insieme alla dipendenza da anfetamine.

E che cosa hai visto tu in lei per dedicarle un tuo libro?
Una donna che ha fatto suo malgrado la storia, ma di cui nessuno aveva mai raccontato l’umanità. Persino LIFE, quando pubblicò il ritratto del suo cadavere, non scrisse nulla su di lei.
Un corpo morto, magicamente composto e bellissimo: questo è stato per 70 anni.
E così sono le donne come lei, le nostre nonne, bisnonne, tutte le donne che hanno fatto la storia del ‘900 rimanendo però fuori dai libri di storia. Anche loro, di cui ogni tanto compare un nome in un documento, sono state tradite, ingannate, rilegate a ruoli marginali e funzionali agli uomini.
Rimettendo insieme i frammenti della vita di una di queste donne ho ricucito le esistenze di molte donne.
Il romanzo ha un lungo filo rosso che passa attraverso le donne del secolo scorso e arriva fino a noi: subiamo oggi come allora le stesse pressioni sociali e alle nostre ambizioni sono opposti gli stessi ostacoli.

Se potessi parlare con Evelyn McHale, un istante prima del suo drammatico gesto, che cosa le diresti?
Sono stata molto vicina a invadere il suo spazio privato, a disturbare la sua famiglia per chiedere di poter leggere i suoi diari, le sue lettere.
Mi sono permessa, alla fine del romanzo, di darle voce, con la presunzione di poterla considerare un’amica.
John Berger scrive che i vivi sono il nucleo dei morti, che tra l’eternità e la vita esistono degli scambi; e che senza i morti i vivi sono incompleti.
In otto anni di vita ho coltivato la mia personale, profonda amicizia con il fantasma di Evelyn. E nonostante lei abbia scelto il più alto grattacielo d’America per compiere il suo gesto, io credo che i suoi sentimenti fossero sinceri: non voleva essere vista da chi l’amava. Il gesto migliore che possiamo riconoscere a una persona è il rispetto. E il rispetto si misura molto più con i silenzi che con le parole.
«Proviamo così, allora. Ascoltate: Ai piedi dell’Empire State Building il corpo della giovane Evelyn McHale riposa adagiato in una grottesca sepoltura.»
«Ci siamo. L’abbiamo trovato.»
Soddisfatti, i sorrisi e i sospiri percorsero il tavolo della redazione di Life senza soluzione di continuità. Il gioco era finito bene.
Dopo la pubblicazione della fotografia di Evelyn McHale, Life ha pubblicato solo altre due fotografie di cadaveri, ma “parziali”. Un braccio di un soldato morto (che si intravedeva su un elicottero in Vietnam) e la famosa foto del monaco che si dà fuoco.
Nessuna fotografia come quella di Evelyn: lei è unica.
Nadia Busato aka nadiolinda, classe 1979 (Brescia).
Appassionata di virtualità, blogger, sociologa dell’acchiappo ai tempi dell’happy hour.
Ha una laurea in lettere moderne, una passione mai sopita per il teatro, un master europeo in management dell’alta formazione e quasi vent’anni di esperienza professionale nella comunicazione, privata e istituzionale. Scrive per raccontare storie, scrive quando e come può.
Ha aperto il primo blog nel 2004 e non ha più smesso.