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Sergio Azzolari: “Siamo ribelli, con una giusta causa, e vogliamo essere cool senza particolari sforzi”.

Mentre tutto il mondo si ferma, i MARKETERs ripartono!

Il MakeIT!, l’evento firmato MARKETERs è tornato in una versione fresca, a portata di PC e a prova di zona rossa.

Il tema principale è stato il Lusso.

L’edizione 2021 dell’evento dal titolo MakeIT!21 – Luxury Reload  ha fatto vivere un’esperienza formativa e coinvolgente ai partecipanti, segno distintivo del concept MakeIT.

Come? Focalizzandosi sui brand leader del settore, la loro storia e come si stanno innovando e reinventando di fronte a questo periodo di grandi cambiamenti.

La precedente edizione MakeIT!20 – Don’t Stop The Brand ha vantato ospiti tra cui grandi marchi come Converse e Hasbro e ha riscosso con successo l’apprezzamento di oltre 500 partecipanti.

Sei curioso di scoprire quali sono stati gli ospiti di quest’anno?

Se il primo si caratterizza per stile, eccellenza e versatilità, trasformando una semplice giacca da lavoro in un capo cittadino iconico, il secondo esprime la sua autenticità in varie linee di calzature ed abbigliamento, dalla più sportiva alla più elegante.
Sono stati proprio Fay & Hogan, i due brand del gruppo Tod’s, ad essere i primi ospiti del #MakeIT21 – Luxury Reload!
Il 12 Aprile, alle ore 17:00.

Ha iniziato la sua carriera nel settore Fashion e Retail in Asia presso Benetton Group per poi ricoprire ruoli esecutivi in giro per il mondo in aziende come Missoni e Luxottica.
Sergio Azzolari, General Manager Fay & Hogan, ha inaugurato il primo Talk del #MakeIT21 – Luxury Reload.

I valori del gruppo sono tradizione, qualità, etica, eccellenza artigianale e Made in Italy.

«Mi occupo di 2 dei 4 brand del gruppo Tod’s, gruppo che è un’azienda completamente familiare creata proprio da zero e, ora, quotata in borsa.

La loro storia è iniziata nel 1920 con una piccola fabbrica di calzature nelle Marche: oggi il valore del gruppo è stimato intorno al miliardo di euro.

Si tratta chiaramente di una stima pre-Covid: anche noi abbiamo avuto degli impatti negativi con la pandemia, soprattutto a livello Retail.

Contiamo circa 4800 impiegati. Abbiamo 8 aziende produttive.

L’attività del marchio si basa su alcuni valori fondamentali: la qualità dei prodotti, l’abilità artigianale (che è proprio un valore familiare) e l’Italian lifestyle, la gioia di vivere.

In tutto ciò che facciamo in termini di comunicazione, esprimiamo il saper vivere all’italiana!

Una notizia molto importante è anche che Chiara Ferragni è diventata parte del nostro consiglio di amministrazione.

A livello statutario abbiamo una percentuale degli utili che viene destinata ad attività di solidarietà e di sostenibilità.

Solo per fare due esempi: abbiamo sostenuto la comunità di San Patrignano e costruito un’azienda in un territorio danneggiato dal terremoto, per la sua rivalutazione.

Come accennavo prima abbiamo 4 brand che formano il gruppo: Tod’s, Hogan, Fay e Roger Vivier.

Quest’ultima è un’acquisizione di un’azienda storica (e iconica), nata nel 1930, e Roger Vivier è stato l’inventore del tacco a stiletto (nel 1954).

Durante l’incoronazione, la Regina Elisabetta II vestiva Roger Vivier.

Le scarpe della regina Elisabetta firmate da Vivier erano un paio di sandali dorati taglia 37, realizzati in morbida pelle, impreziositi da rubini (simboleggianti l’unione tra la regina e i suoi sudditi) incastonati sia sul tacco che sulla decorazione sopra il collo del piede. Il disegno che decorava la scarpa reale era ispirato al fleur de lysthat, lo stesso che adornava la corona di S. Edoardo e la Imperial State Crown indossata dalla regina nel giorno dell’incoronazione. Il tacco era rinforzato da un piccolo platform, nascosto, in modo che la regina potesse stare comoda durante tutta la durata della cerimonia (circa tre ore). A completare l’opera delle scarpe Roger Vivier era stata Rayne, compagnia britannica che aveva una joint venture con Delman, partner di Vivier negli States, che aveva fabbricato il sandalo dorato della regina.

Tod’s incarna l’essenza dell’italianità: l’arte di godersi la vita. Uno dei suoi mantra di eccellenza quotidiana: il gommino, l’icona del brand.

E c’è sempre un tocco artigianale con un design moderno. I prodotti sono molto amati dalle celebrità, per tutte queste ragioni.

Roger Vivier è invece sinonimo di lusso esclusivo: eccentricità, originalità, DNA parigino.

Veniamo ai miei brand: Fay & Hogan.

Hogan è un brand che trae ispirazione dal mondo dello sport, oltre a essere un brand Lifestyle e di lusso.

Quello di Hogan vuole però essere un lusso rilassato, non per forza schiavo delle mode.

Quello che distingue le Hogan dalle sneakers in commercio, prodotte in modo seriale, è che sono fatte in modo artigianale, come le scarpe classiche.

Siamo ribelli, con una giusta causa, e vogliamo essere cool senza particolari sforzi.

Il nostro consumatore vuole essere un Ulisse urbano, uno spirito libero e senza particolarità.

Il target principale è quello della Generazione C (Connected Generation).

Da quattro anni ormai siamo orientati verso una comunicazione sempre più digitale e moderna.

L’idea è quella di andare a vestire persone che siano molto estroverse e sans frontières.

Il brand Hogan nasce nel 1986 all’interno del gruppo Tod’s, di proprietà della famiglia Della Valle.

Undici anni dopo nasce la scarpa Interactive, il best seller che rende Hogan icona dell’eleganza informale.

Da due anni a questa parte abbiamo voluto dare ulteriore gusto allo stile innovativo del brand: abbiamo lanciato già nel 2018 una serie di novità estremamente forti, per andare in una nuova direzione che non è solo di prodotto ma di comunicazione a 360°.

Chiaramente facendo questo abbiamo dovuto completamente riadattare o ripensare i nostri spazi Retail: il nostro negozio in Via Montenapoleone, a Milano, è stato lo standard che abbiamo poi portato in tutto il mondo.

Le novità hanno riguardato i prodotti ma soprattutto il modo di raccontarli: abbiamo lanciato da pochissimo la Hogan Rebel Society.

Abbiamo in sostanza ripreso la vision del brand: Hogan è nato in un’epoca (gli anni ottanta) in cui era impossibile vedere qualcuno indossare le scarpe da ginnastica sotto un vestito formale.

Hogan è stato il punto di rottura di questo tabù!

Ha avuto da subito uno spirito ribelle che, chiaramente, negli anni è andato un pochino a imborghesirsi, quindi ora intendiamo riprendere questo discorso però con un gap di 35 anni e in maniera completamente diversa.

L’obiettivo è quello di catturare più dati e avere un filo più diretto con i consumatori che sono più giovani (in media tra i 25 e i 35 anni).

Abbiamo quindi pensato di utilizzare come strumento la tecnologia: ogni sneaker Hogan Rebel è dotata di un particolare portachiavi con tag NFC integrato, che servirà come chiave per accedere al mondo segreto della Society. Per registrarsi alla Hogan Rebel Society basta accostare lo smartphone al portachiavi e seguire le istruzioni sulla pagina web.

City codes with Ludovica Martino | Hogan

In questo modo desideriamo far ubicare le persone, dar loro una traccia musicale (playlist personalizzate sulla base del tipo di consumatore) e poi regalare man mano nuovi contenuti esclusivi.

Inoltre questa community può essere la piattaforma ideale per realizzare attività di marketing o di co-marketing.

Per esempio possiamo dare delle idee di stile: sulla base di dove uno è e di cosa vuole fare, la piattaforma dà degli spunti su come vestirsi e su come valorizzare il proprio tempo.

Un’altra grande innovazione è un prodotto che sarà disponibile dal prossimo Agosto: la nuova sneaker Hogan-3R.

Il mondo della moda e del lusso sta facendo una fatica immane ad andare verso l’ecosostenibilità: noi con Hogan siamo, forse, riusciti a realizzare il primo prodotto interamente sostenibile.

Abbiamo ragionato su tutte le caratteristiche della scarpa e del packaging in modo da andare a creare un qualcosa che sia non solo consumer-friendly ma anche eco-friendly.

Chiaramente dobbiamo considerare il fatto che, oggi, una grossa fetta del nostro business proviene dall’Asia (soprattutto dalla Cina).

Il mercato del lusso ha creato una dicotomia tra il messaggio rivolto ai paesi occidentali e quello rivolto alla Cina.

E per fare questo abbiamo dovuto ripensare completamente il nostro market: abbiamo scelto, già da tre anni a questa parte, di utilizzare dei Brand Ambassador.

In questo caso abbiamo scelto un Brand Ambassador uomo, uno degli attori cinesi più apprezzati e una starlet emergente, quasi influencer.

Il video promozionale su YouTube ha avuto una reach impressionante, una fortissima interazione che poi si traduce in traffico sui nostri punti vendita e sul nostro sito.

Quindi l’idea è stata quella di prendere un brand che ha la sua storia, soprattutto italiana, e che è sempre stato fondamentalmente un brand di prodotto e andarlo invece, piano piano, a ricreare come un brand lifestyle.

Come? Attraverso tutto ciò che può essere innovazione tecnologica, sempre restando nel concetto di produzione classica della calzatura, ma con comunicazione e interazione completamente digitali.

Nel mercato cinese non avevamo un retaggio preconfezionato, non eravamo già conosciuti e classificati come in altri paesi del mondo.

Questa idea di coolness è molto pervasiva, in modo che il prodotto venga a essere portato e interpretato in maniera diversa da vari utilizzatori finali che quindi non lo vivono più come un prodotto tradizionale e un pochino noioso ma lo reinterpretano con uno spirito nuovo.

Quindi per Hogan il primo task è renderlo moderno, l’esatto opposto avviene per Fay.

Fay è un brand essenzialmente di capospalla, anzi spesso si dice che tu non ti metti un cappotto ma ti metti un Fay.

Fay Archive | Field Test #7

Quindi è ormai entrato nell’immaginario collettivo, soprattutto per certe categorie di professionisti è ormai il capo di riferimento.

La challenge è stata di farlo tornare nell’ambito normale, quotidiano, pertanto il percorso è stato opposto rispetto a quello di Hogan.

Il marchio è nato come fornitore dei pompieri americani, vuole essere informale ma raffinato e versatile, e ha quel componente di qualità e ricerca che lo rendono un lusso.

Vuole però essere reinterpretato con la tipica aria di scanzonatùra italiana: anche in questo brand come negli altri del gruppo l’italianità è un valore fondamentale.

Abbiamo quindi pensato per Fay sia delle personas uomo che delle personas donne che siano estremamente credibili e reali.

Gli articoli principali di Fay sono giacche e capospalla di uso comune, per far sentire chi li indossa sempre a posto. In base a ciò abbiamo ridefinito i nostri target e questo ci sta ripagando molto, soprattutto sull’online.

Ma per fare questo abbiamo dovuto pensare a come tornare indietro: mentre su Hogan si va avanti, qui si cerca invece di riprendere quella che è l’origine.

Chiaramente non in maniera pedissequa, noiosa o con il rimpianto del passato!

Questa non è un’operazione nostalgia ma il target è il mostrare alle nuove generazioni ciò che si sono perse negli anni ottanta.

Ovviamente con tutta una serie di accorgimenti che vanno dalla scelta dei materiali alla vestibilità e che devono rendere il capo assolutamente moderno.

Siamo riusciti a ridare lustro a un brand che, negli anni, era diventato più da commercialista e da politico che da persona comune. E ne siamo molto contenti!»

Hogan

Chiara Ferragni, l’influencer imprenditrice seguita da milioni di follower, è entrata nel Cda di Tod’s. Ad annunciarlo è stata l’azienda di Diego Della Valle, il 9 Aprile, in una nota in cui spiega di aver nominato la 33enne di Cremona per la centralità che si vuole dare a «impegno sociale, solidarietà, sostenibilità nel rispetto dell’ambiente e dialogo con le giovani generazioni».

La mission di Chiara Ferragni sarà avvicinare il marchio ai giovani.

In che modo questo avverrà in Fay & Hogan?
«Come dicevo, l’azienda è molto attiva nell’ambito della solidarietà e sostenibilità quindi l’ingresso di Chiara Ferragni sarà un acceleratore dei processi già in atto.

E forse sarà un game changer nel momento in cui si deciderà dove destinare i fondi e gli sforzi. Il gruppo si è speso moltissimo in vari ambiti, dalla conservazione artistica alle attività sociali, anche ad esempio per la pandemia da Covid-19, l’anno scorso, istituendo un fondo per supportare il personale sanitario in prima linea.

C’è parecchio da fare e da pensare in tal senso, sicuramente in maniera distonica rispetto al passato.

Tutti i nostri brand sono concentrati sul pensare come voltare pagina e fare le cose nel modo più interessante possibile, ma soprattutto più innovativo e più sul mood del mondo dei giovani.

Lo stesso 3R è un prodotto che può essere completamente riciclato. Procedere in questo modo è più costoso: realizzare un prodotto riciclato costa di più che realizzare un prodotto non riciclato, infatti implica molti processi in più e anche un ripensamento della filiera produttiva.

Sicuramente nei prossimi anni ne penseremo delle belle e ne faremo anche delle belle!»

«Il nostro negozio tipo è sempre più user demand che non rent demand. Ad esempio c’è una parete che è un enorme display, al momento, per proiettare i nostri video promozionali ma già predisposto per future funzionalità interattive con il consumatore.»

Il primo target è rendere le cose a prova di futuro.

Come pensa Hogan di cambiare la percezione di tradizione del brand?
«La vera challenge quotidiana, per tutti noi in Hogan, è ingegnerizzare la non dipendenza dall’Interactive.

Quando sono arrivato in Hogan non potevo certo reiventare la Interactive, scarpa tradizionale del brand, quindi la prima cosa che ho fatto è far comprendere a tutti che la dipendenza del brand dall’Interactive era veramente troppo alta ed era anche un deterrente per l’ingresso nei mercati esteri. La Interactive vuole essere una scarpa italiana per gli italiani, anzi per le italiane (soprattutto per quelle alte meno di un metro e settantacinque). Quindi abbiamo marciato tanto sull’esplosione di nuovi modelli e di innovazione nella declinazione del marchio. E adesso l’Interactive è così apprezzata e famosa da valere il 15% del fatturato.

La percezione ora non è più quella di agire sul prodotto ma di agire sul brand, passando a una comunicazione che sia più sul lifestyle, sulle cose che uno fa con il prodotto piuttosto che su come lo indossa.

E questo è un po’ uno dei grandi mantra del mondo del lusso. Tutto il mondo del lusso, generalmente, si è sempre identificato con una cosa o con un prodotto, oggi la vera sinapsi è quella di parlare sempre più di branding e sempre meno del prodotto in sé.»

Hogan | In loving memory of Giovanni Gastel

Quale futuro avranno i negozi fisici per i vostri marchi, rispetto alla vendita online?
«Sono un grande fautore dell’Omnichannel Marketing. In Italia, oggi, non esiste ancora, siamo ancora in un ambito Multichannel.

La mia idea invece è quella della omni-canalità vera.

Un punto di contatto fisico ci dovrà sempre essere (anche Amazon ha aperto dei negozi fisici), ma la valenza del negozio cambia: non sarà più un semplice porgitore di un servizio al consumatore ma diventerà uno spazio esperenziale.

E deve essere sempre più così! Anche nell’esperienza di lusso, l’importanza non è solo quella del prodotto in sé e magari del packaging in cui è avvolto, ma tutta l’esperienza che sta attorno.

Quindi la valenza del negozio fisico semmai raggiunge una valenza diversa. Il vecchio concetto di negozio con il bancone e il commesso non esiste più, il negozio si è reso sempre più self-service.

Inoltre il negozio rappresenta un costo per l’azienda, quindi deve essere sempre più furbo e sempre più esperienziale (per continuare a esistere).

Non puoi combattere l’innovazione tecnologica di un e-commerce che compete con il negozio fisico: devi cavalcarla.

Il cliente si proverà le scarpe in un nostro negozio, ci penserà su, confrontandole tramite il suo smartphone con altri prodotti competitor e poi magari, da casa, le acquisterà sul nostro sito.»

The modern urbanist with Marisa Hampe in Hogan AW2021

In che modo vengono condotti gli studi su una certa cultura in modo da commercializzare un prodotto? E quali sono i main trend nel mercato cinese?
«In primis noi siamo fortunati perché abbiamo la nostra organizzazione in Cina e quindi abbiamo informazioni di prima mano, abbiamo tantissimi negozi nel paese (franchising, negozi diretti, online), abbiamo tante voci. C’è quindi un monitoraggio quotidiano e diretto di ciò che accade, nuove tendenze e altro…

Il paletto principale, e si è visto in quest’anno di mancati viaggi, per la distanza rimane la distanza: devi essere là, devi avere il polso della situazione. E i macro trend si capiscono così.

Mentre in Europa si pensa più al valore che trasmette il brand, in Asia è più il valore che ricopre il brand.

E quindi non è tanto il prodotto che promuovi ma chi lo indossa.

Talvolta si ha la prosopopea di capire più noi del mercato: è il caso eclatante di Dolce&Gabbana. In primis il marchio ha insultato il popolo cinese con degli stereotipi, ma la cosa più offensiva è che la modella scelta era coreana.

Prima di tutto devi fare un bagno di umiltà quotidiano e dire a te stesso: io non so. Poi, partendo da questo presupposto, impari.

Io ho avuto la fortuna di frequentare la Cina fin da quando ero bambino, ho viaggiato per la prima volta nel paese quando avevo 6 anni, ho avuto l’opportunità di vivere lì per 9 anni. Pandemia permettendo ci torno almeno 4 volte all’anno, l’ho girata in lungo e largo e posso dire, dopo più di quarant’anni di conoscenza della Cina di non conoscere la Cina.

Il mercato cinese si muove a un ritmo così vertiginoso che bisogna sempre stargli dietro.

In Occidente il mondo si muove molto lentamente: i trend li vedi arrivare già da lontano, poi li segui o li combatti, quello che preferisci, in Cina durano un giorno.

Quindi è fondamentale avere una presenza locale, osservare, parlare, interrogare se stessi e gli altri.

Per esempio una cosa che per noi potrebbe sembrare bizzarra: lì i marchi del make up utilizzano testimonial maschili. Da noi questo non avrebbe senso, mentre lì anche un uomo si può truccare, senza suscitare scalpore.

Quindi anche noi abbiamo dovuto tener presente questo fattore nella scelta dei nostri testimonial: devi essere molto preciso e molto sveglio.»

Quali sono le vostre prospettive future per i mercati asiatici?
«Il peso dell’economia cinese nel mercato mondiale è ormai molto importante. Ce ne siamo accorti chiaramente durante la pandemia, perché abbiamo perso quella fetta di consumatori cinesi che di solito vengono in Europa, pur aumentando la quota locale. Abbiamo guadagnato un po’ di italiani ma abbiamo perso tutti i cinesi.

Lì è sempre una questione di essere innovativi, svelti, ricettivi. Uno dei motivi per cui abbiamo cambiato tantissimo l’aspetto merceologico del brand è stato proprio per l’effetto Cina. Dovevamo avere più novità, più spesso, però anche razionalizzando l’offerta. Ho cambiato quasi il 30% dell’assortimento di 3 anni fa.

L’innovazione continua del prodotto è l’unica cosa che, insieme al branding, è sempre credibile.

Il consumatore cinese da una parte vuole sempre la novità ma dall’altra è meno volatile del consumatore europeo.

Il consumatore europeo segue le mode molto di più del consumatore cinese.

Un grande uomo che mi ha insegnato tanto e con cui mi sono divertito veramente tanto a collaborare, un tal Missoni, una volta mi disse:

il problema della moda è l’essere di moda.

Se sei di moda fai grandi affari ma poi il tuo tempo finisce. Infatti lui ha sempre cercato di essere originale, intelligente, creativo ma mai di moda.

Lo stesso discorso vale in Cina: se sei di moda duri due stagioni.»

Setting the sunset off right in Hogan #AW2021

Quali sono le azioni concrete del brand in merito alla sostenibilità?
«La sostenibilità è fatta da più parti: una parte fondamentale della sostenibilità è data anche dalla longevità.

Se una persona sceglie di indossare un cappotto Fay, per esempio, questo prodotto durerà in eterno. Quindi il costo per il capo di lusso viene ammortizzato dalla possibile durata del suo utilizzo.

Quindi il primo step di sostenibilità è rappresentato dalla qualità dei materiali e della manifattura.

Un altro step è il fatto che produciamo tutto in Italia. E questa è sostenibilità sia ambientale che sociale.

In Hogan il primo step di sostenibilità che abbiamo fatto quest’anno è stato quello di andare a recuperare tutti i pellami di scarto dei vari marchi del gruppo per produrre linee speciali nelle quali abbiamo potuto mantenere in linea il costo del prodotto finale, anche usando materiali di lusso, proprio in quanto erano scarti di altre lavorazioni (quindi già pagati).

E poi c’è ovviamente il progetto 3R che vuole essere il primo per il gruppo e nel quale ancora una volta siamo noi le cavie.

Abbiamo selezionato un produttore con il quale abbiamo studiato come realizzare i fondi delle scarpe interamente con prodotti di scarto, per dargli un valore ancora più alto, e chiaramente fare degli stampi diversi. Per i pellami nuovi siamo andati a selezionare quelli di una serie di concerie che non contengano cromo o altri prodotti inquinanti, quindi stiamo dando un prodotto con una qualità altissima ma con una morbidezza maggiore al tatto.

Tutta la plastica e tutto il cotone sono interamente riciclati.

Anche il packaging sarà tutto riciclato. La carta addirittura conterrà dei semi che germoglieranno, piantandola in terra.»

Potremo quindi mettere sul nostro balcone la scatola delle Hogan 3R e da lì crescerà qualcosa, non si sa cosa, c’è anche l’effetto sorpresa!

Quali saranno le conseguenze della crisi attuale causata dal Codiv-19 sul settore del lusso?
«Gli effetti saranno tanti, a cominciare dalle chiusure delle aziende che già ci sono state e dagli impatti economici negativi che abbiamo subito tutti.

Basti pensare a tutte le location nelle grandi strade del lusso che sono state chiuse, nel mondo, e che chiaramente hanno un costo. Una perdita secca per tutti.

Lì sarà un po’ darwiniana la cosa: ci sarà chi resisterà come noi, con poche chiusure, quasi nessuna, anzi opportunità di trovare nuove location che si liberano e che, magari prima erano proibitive.

Dall’altro lato le grandi vie dello shopping cambieranno aspetto.

A mio avviso (per moti brand) si riduranno le superfici dei negozi, ovviamente il discorso non vale per i negozi di proprietà di un marchio. Come macro trend si ritornerà a delle superfici più gestibili e a contratti di affitto più corti.

Si diffonderà il lavoro flessibile, all’americana. In Italia molta disoccupazione giovanile è causata dalla poca libertà d’azione che hanno le aziende. Negli USA invece tutti hanno almeno un lavoro, se non due o tre. Nel nostro paese uno è già fortunato ad averne uno!»

Da ex Ca’ Foscarino, qual è stato il tuo percorso accademico e come hai fatto ad assumere questo ruolo così importante nel settore del lusso?
«Mi sono iscritto all’università già con l’idea di fare qualcosa in Cina e mi sono iscritto nel 1988 quando in Cina si andava poco ed esistevano vari stereotipi…

Poiché, avendo avuto la fortuna di frequentare quel paese fin da bambino, accompagnando mio padre, avevo già capito che lì esistevano tutta una serie di opportunità.

Su questo desiderio poi ho costruito tutto il mio percorso. Non avevo intenzione di andare a lavorare nel mondo della moda, infatti studiavo Economia aziendale e Giurisprudenza, in quanto volevo crearmi un substrato economico-legale per fare joint venture (associazione temporanea di imprese) in Cina, possibilità che all’epoca non esisteva…

Sono quindi andato in Cina a lavorare per un ufficio legale, dove mi occupavo di joint venture tra il governo cinese o locale e grosse corporazioni straniere. Il fatto che sono di madrelingua inglese mi aiuta molto ad esempio nell’interazione con i manager americani. Ad esempio nel 1991 / 1992 ho curato la joint venture tra Motorola e Telecom, quando i telefoni cellulari erano grandi come valigie.

Uno dei clienti di questo studio era la controparte asiatica di una joint venture con Benetton, in quel meeting scattò subito una simpatia e così venni assunto da Benetton che mi mandò ad aprire il mio primo negozio… A Taiwan! Lì ho trascorso fisicamente un mese ad aprire negozi e a capire come si svolgeva il lavoro.

Dopo 5 anni in Benetton, ho deciso di tornare in Italia e ho lanciato Moda Chicco, a Como, poi sono tornato negli USA per un altro ruolo, di nuovo in Cina.

Da lì sono passato in Missoni, come direttore retail e lì, forse, è stato il mio ingresso ufficiale nel settore del lusso.

Poi sono stato convocato da Luxottica, 6 anni fenomenali, poi un’esperienza a Londra dove sono stato avvicinato dalla famiglia Della Valle.

Mi chiesero cosa ne pensavo del loro brand e io, tra il serio e il faceto, fui molto caustico.

Il risultato? Poco dopo mi arrivò la telefonata del loro direttore del personale che mi disse: ho avuto indicazioni di doverla assumere.»

L’idea di tornare all’ovile, dopo tanti anni in giro per il mondo, e di contribuire a un brand straordinario (uno dei pochi rimasti italiani) mi sembrava un’ottima opportunità e così eccomi qui.

Miriam Bendìa
Tra un viaggio e l’altro, vive a Roma. Ha scritto un pugno di libri. Come Philippe Daverio, sostiene che la vita con l'arte talvolta migliora l'arte della vita. Sogna molto, la notte. E ha imparato, al risveglio, a fidarsi delle proprie visioni oniriche.

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