Vincitore della Palma d’oro al 74° Festival di Cannes, Titane di Julia Ducournau è un film capace di alternare repulsione e tenerezza.
La protagonista Alexia è una ragazza instabile: un incidente durante la sua infanzia l’ha resa restia e violenta e in seguito le è stata impiantata una placca di titanio in testa da cui capiamo il significato del titolo.
L’incipit del film può far subito pensare ad un body horror ma in realtà Titane non ha un genere definito, barcolla tra il dramma, il fantasy e cerca di provocare ribrezzo nello spettatore: è oggettivamente difficile non distogliere lo sguardo da alcune scene brutali da cui il pubblico viene continuamente intimidito.
Già nel film precedente della regista, Raw, si possono cogliere le tematiche che sono la base della sua cinematografia: corpo, identità e crescita.
La Ducournau riprende i ruoli di genere e le relazioni sociali capovolgendole, ricostruendole senza porsi mai dei limiti, mostrando sempre il lato più crudo.
In Titane, il corpo di Alexia, metà umano e macchina, muta in continuazione andando a creare una sorta di fluidità.
Una delle tante citazioni cinematografiche, che si trovano all’interno del film, è sicuramente quella di Crash, del 1996, diretto da David Cronenberg, che ha in comune il legame, in particolare quello sessuale, che si instaura tra corpo e macchina.
La regista francese riprende queste tematiche ripensandole e riattualizzandole dandoci, umanizzandola, una visione positiva della mostruosità.
Titane propone una materia narrativa complessa e allo stesso tempo popolare, una regia moderna e sensuale che dal punto di vista visivo ci regala un’incredibile estetica grazie alla fotografia di Ruben Impens, che alterna toni caldi e freddi.
L’ultimo film della Ducournau è uno di quei film che potrebbe essere considerato pretenzioso, invece risulta un’opera con una sua logica lineare, nel momento in cui sceglie di creare tematiche proprie disintegrando lo stesso concetto di normalità.