Sono gli unici animali in cui sia mai stata osservata la presenza di tumori trasmissibili. Uno di questi casi, rarissimi al mondo, sta minacciando l’esistenza di una intera specie. Il diavolo della Tasmania, che molti conoscono grazie all’irascibile, ma simpatico, personaggio dei cartoni animati Looney Tunes, rischia l’estinzione proprio a causa di un “cancro parassita”, che trasmettendosi da un animale all’altro sta decimando la popolazione. Ma dopo 30 anni dalla sua scoperta, i ricercatori dell’università del Queensland in Australia stanno finalmente per iniziare i test di un vaccino contro questa malattia.
Nella maggior parte dei casi, il cancro non è una malattia contagiosa, ma emerge da una combinazione di fattori genetici e ambientali. Esistono però un paio di eccezioni. La prima e più famosa è quella dei tumori di origine virale, come il cancro al collo dell’utero che è causato dal virus HPV. Ma a volte, e questa è la seconda eccezione, i tumori possono trasmettersi anche in assenza di virus: in questi casi gli agenti infettivi sono le cellule tumorali stesse, che si diffondono nella popolazione come dei “parassiti”.
Il primo a essere identificato nel 1996 fu il tumore facciale del diavolo della Tasmania (DFTD). Rappresenta uno dei pochi casi al mondo, insieme al tumore venereo canino, alla leucemia dei molluschi e al sarcoma del reticolo nel criceto dorato.
Tutte le cellule del nostro corpo presentano sulla superficie una stessa molecola del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC), una specie di “impronta digitale” che caratterizza le cellule di uno stesso organismo. Le cellule esterne, dette anche “non-self”, hanno un MHC diverso che permette al sistema immunitario di distinguerle dalle altre.
Il sistema immunitario del diavolo della Tasmania, però, non sembra in grado di respingere le cellule tumorali non self, forse perché queste hanno la capacità di ridurre l’espressione dell’MHC – un escamotage che le rende praticamente “invisibili”. Negli animali il contagio si verifica soprattutto attraverso i morsi, che sono frequenti durante gli accoppiamenti o nelle lotte per il cibo. La malattia è spesso letale, perché provoca la comparsa di masse tumorali sulla faccia dell’animale, intorno agli occhi e alla bocca, che gli impediscono di mangiare o bere.
Il DFTD ha già ucciso l’80% dei diavoli di Tasmania, portando la popolazione sull’orlo dell’estinzione. Tra qualche decennio di questo animale potrebbe restare solo il ricordo, conservato in un libro di biologia insieme ai ritratti del dodo, della tigre dai denti a sciabola, del rinoceronte bianco e di altri animali che non esistono più.
Ma il destino del diavolo della Tasmania non è ancora compiuto: la ricerca continua a fare progressi e potrebbe essere presto disponibile un vaccino contro la malattia. Lo riporta un articolo pubblicato il mese scorso sulla rivista Nature, che spiega anche come è nata l’ispirazione per questo vaccino.
La tecnologia è la stessa impiegata per i vaccini contro Covid-19 delle aziende Astra Zeneca e Jhonson & Jhonson, con un adenovirus che trasporta il vaccino all’interno delle cellule. Come nei vaccini anti-Covid, anche questo vettore virale è stato modificato in laboratorio in modo da non poter replicare o causare la malattia ed è innocuo per gli animali. La sua funzione è di rilasciare all’interno delle cellule un gene che codifica per una proteina espressa sul tumore (ma non sul tessuto sano) per istruire il sistema immunitario a riconoscere e ad attaccare le cellule trasformate.
Non è il primo: un vaccino contro la DFTD, basato su cellule, era stato testato nel 2017 su 5 animali, ma aveva funzionato solo su uno. Visto il successo dei vaccini contro il Covid, questa nuova piattaforma potrebbe avere le carte in regola per superare questo risultato, parzialmente deludente.
Nella prima fase dello studio, il vaccino sperimentale sarà somministrato a 22 animali in salute. Come nella sperimentazione clinica sugli esseri umani, lo scopo inizialmente sarà quello di confermare la sicurezza del vaccino e la sua capacità di stimolare una risposta immunitaria. Solo in un secondo momento, i ricercatori valuteranno se il vaccino protegge anche dal contagio.
Se i risultati saranno positivi, i ricercatori avranno bisogno di studiare un metodo pratico e veloce per somministrare il vaccino alle popolazioni presenti in natura, tenendo conto del loro carattere selvatico e refrattario al contatto con l’uomo. Anche in questo caso, l’ispirazione potrebbe venire da un altro vaccino: quello della rabbia, che nel 1987 è stata combattuta distribuendo nelle regioni a rischio più di 250 milioni di esche commestibili contenenti il vaccino.